C’è una guerra che si combatte in uno dei paesi più poveri con le bombe degli stati più ricchi del mondo. È il conflitto in Yemen che in quasi sette anni ha dato vita a una crisi umanitaria senza precedenti: 3,6 milioni di sfollati interni, su 2,3 milioni di bambini malnutriti oltre 400mila sono in pericolo di vita per malnutrizione acuta grave. In totale sono almeno 150mila le vittime.

Più volte gli sterili appelli delle Nazioni unite hanno richiamato l’attenzione sulle oltre 23 milioni di persone bisognose di assistenza, circa l’80 per cento della popolazione.

Il conflitto civile è imperante e ha fatto entrare lo Yemen nella categoria dei cosiddetti “Failed state”, uno stato fallito che non è in grado di imporre la sua sovranità e il rispetto delle sue politiche. Il termine venne coniato dall’ex segretario di Stato Madeleine Albright nel 1993 in un commento sul New York Times per riferirsi alla Somalia.

Sono passati quasi undici anni oramai da quando il paese è stato colpito dalla maledizione delle primavere arabe, che hanno gettato nel caos altri paesi come Libia, Siria, Iraq. Anche qui, nel gennaio del 2011, qui gli studenti sono scesi in piazza per chiedere riforme democratiche, di contrasto alla corruzione e alla povertà, e soprattutto la fine del governo di Ali Abdullah Saleh, in carica da oltre trent’anni, fin da prima dell’unificazione tra nord e sud del paese avvenuta nel 1990.

Le manifestazioni, seguendo lo stesso copione di quanto accaduto negli altri stati arabi, sono state represse con il sangue e la violenza da parte degli apparati di sicurezza. Nel settembre del 2011 si contano oltre 225 morti e centinaia di feriti.

I fatti che precedono il conflitto

AP Photo/Nariman El-Mofty

Alle violenze del governo si aggiungono quelle dei gruppi terroristici affiliati ad al Qaida attivi in diverse città sparse lungo tutto il territorio. Iniziano a farsi strada anche gli huti, un movimento fondato nel nord del paese nei primi anni duemila di stampo sciita zaidita e ostile al governo.

Come se non bastasse nel sud del paese si fomentano le istanze secessionistiche del movimento al Hiraak che sembravano spente dopo la sconfitta nella guerra civile del 1994.

Nel novembre del 2011, dopo quasi un anno di proteste il presidente Saleh si dimette. I “grandi” della penisola arabica (Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Qatar, Bahrein, Kuwait e Oman) elaborano un piano di transizione all’interno del Consiglio di cooperazione del Golfo. L’accordo prevede un nuovo governo di unità nazionale che prendesse in considerazione il partito del presidente uscente (General people’s congress) e quello d’opposizione Islah.

Nel febbraio del 2012 viene eletto come presidente ad interim Abd Rabbo Mansour Hadi. Vengono indette nuove elezioni per il 2014 e istituita una Conferenza di dialogo nazionale per redigere una nuova costituzione. Ma la transizione politica si evolve in un clima teso e ogni pretesto rischia di far ritornare il paese nel caos. La riforma militare e federale voluta dal governo provvisorio viene osteggiata dai gruppi antigovernativi: gli huti e gli uomini di Saleh si alleano contro il presidente Hadi che decide di rinviare le elezioni.

La fragilità politica porta al colpo di stato del gennaio del 2015 organizzato dai ribelli sciiti che costringono Hadi a rifugiarsi prima nella città di Aden (che diventerà la capitale del governo riconosciuto dalla Comunità internazionale) e poi in Arabia Saudita da re Salman.

L’offensiva militare

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La tensione nello Yemen, infatti, preoccupa Riad che vuole difendere il confine meridionale dalla minaccia degli huti, appoggiati fin da subito dai “cugini” sciiti iraniani. Per Teheran, sostenere i ribelli serve a contrastare l’egemonia Saudita nella regione.

Si creano così due schieramenti: il 26 marzo del 2015 inizia l’offensiva condotta dalla coalizione militare araba a sostegno delle forze governative contro gli huti e gli ex di Saleh che incassano invece l’appoggio dall’Iran e da Hezbollah, il movimento politico e paramilitare libanese di stampo sciita.

In poco tempo quest’ultimi riescono a ottenere il controllo della capitale Sanaa e di altre regioni del nord del paese che si affacciano sul Mar Rosso. I ribelli sono ben consapevoli dell’importanza dello stretto di Bab el Mandeb da dove passa circa l’8 per cento del greggio mondiale (circa 4,8 milioni di barili di petrolio al giorno).

Nell’aprile del 2015 il Consiglio di sicurezza dell’Onu impone un embargo militare agli huti e sanzioni nei confronti dei leader del movimento. Si mobilitano anche gli Stati Uniti fornendo sostegno d’intelligence all’Arabia Saudita.

Lo scontro violento prende di mira anche la popolazione civile. Ma questa è una guerra che chiama in causa anche l’Italia. Il 26 gennaio del 2021 il tribunale di Roma decide di proseguire le indagini sul bombardamento aereo del villaggio di Deir Al-Hajari in Yemen dove l’8 ottobre del 2016 sono morti diversi civili.

Gli inquirenti hanno accertato che quell’attacco è stato condotto con bombe prodotte in Italia dalla Rwm. Le responsabilità dell’export militare italiano spinge il parlamento italiano, a fine gennaio 2021, a revocare l’autorizzazione per delle commesse di bombe dirette all’Arabia Saudita e agli Emirati.

Il tradimento e Hodeida

Alla fine del 2017 il fronte dei ribelli vive una crisi interna. L’ex presidente Saleh viene assassinato dagli huti che lo accusavano di tramare un accordo segreto con l’Arabia Saudita per porre fine al conflitto. Le sue relazioni con la monarchia araba non sono nuove, già nel 2009 Saleh si era rivolto a re Salman per eseguire alcuni attacchi militari contro gli huti e saldare il suo potere.

Secondo alcuni documenti pubblicati da Wikileaks gli attacchi avrebbero colpito anche i civili. Diversi rapporti delle Nazioni Unite affermano che i bombardamenti della coalizione saudita possono costituire crimini di guerra a danno della popolazione civile. Ma lo scontro non si ferma.

Nel 2018 la provincia della città portuale di Hodeida che si affaccia sul Mar Rosso diventa il punto nevralgico della guerra. Per porre fine ai combattimenti viene siglato l’Accordo di Stoccolma del 2018 con cui gli huti e le forze di Hadi raggiungono l’intesa sul cessate il fuoco e su uno scambio di prigionieri. Ma ci vorrà un secondo incontro, un anno più tardi, a bordo di una nave nel Mar Rosso tra i delegati Onu e le parti in causa per far rispettare pienamente gli accordi presi.

La crisi nella coalizione araba

Bandar Aljaloud/Saudi Royal Palace via AP

Anche il fronte anti ribelli entra in crisi. A gennaio del 2018 si scontrano i gruppi separatisti del Consiglio di Transizione del Sud e le forze governative di Hadi che fino adesso hanno combattuto insieme. 

Il conflitto tra gli alleati porta a una rottura nell’agosto del 2019 quando viene ucciso uno dei comandanti del fronte secessionista (sostenuto dagli Emirati Arabi Uniti), che attacca il palazzo presidenziale di Aden con l’appoggio militare emiratino. Per mettere fine alla crisi interna il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman e il principe ereditario di Abu Dhabi, Mohammed bin Zayed al Nahyan, si incontrano a La Mecca. 

Viene così firmato l’accordo di Riyadh nel novembre del 2019 con il quale nasce un governo unitario dai poteri divisi tra le forze di Hadi (esiliato in Arabia Saudita) e i secessionisti.

L’entrata in campo della diplomazia

(ApPhoto)

La guerra si protrae oramai da cinque anni e anche gli huti risentono della crisi economica e dello stato di caos in cui è immerso il paese. Alcuni delegati viaggiano in Iran, Giordania e altri stati vicini per cercare intese di pace. Alla diplomazia, però, si affianca l’intensificazione degli attacchi nell’area meridionale dell’Arabia Saudita. Anche grazie a missili balistici iraniani vengono colpiti diversi punti strategici tra cui la base aerea King Salman e gli impianti dell’azienda petrolifera nazionale Saudi Aramco. Ma l’offensiva dei ribelli guarda anche verso est, nella città di Marib, dove si continua a combattere anche oggi.

La presidenza Biden

Il presidente democratico, Joe Biden, ha dichiarato il 4 febbraio che la sua amministrazione continuerà a sostenere l’alleato saudita ma che ritirerà l’appoggio alle operazioni militari. Pochi giorni dopo il segretario di Stato, Antony Blinken, rivede la designazione degli huti come gruppo terroristico voluta dall’amministrazione Trump. Scelte distensive per arrivare a un accordo. Oggi è la situazione è di fatto in stallo e c’è chi legge il conflitto come una sconfitta per l’Arabia Saudita. La diplomazia non trova vie di uscita e forse la questione può arrivare a un’intesa nel momento in cui l’Iran raggiungerà l’accordo sul nucleare. In questo, la guerra in Yemen può essere una buona carta da giocare nel tavolo delle negoziazioni.

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