Anche quando il potere estende sempre di più la sua presa sull’informazione, come sta succedendo in Ungheria, esiste una variabile che sfugge al controllo. Quella variabile sono i lettori.  «Ci hanno salvati loro» dice Csaba Lukács, direttore del settimanale ungherese Magyar Hang. «Le tipografie non ci volevano mandare in stampa; ci tocca stampare a Bratislava, oltre confine. Ci avrebbe fatto comodo vendere spazi pubblicitari, ma gli imprenditori ungheresi non mettono inserzioni da noi: non vogliono inimicarsi il premier Viktor Orbán. Ho tentato pure con una grande compagnia tedesca: tante importanti case automobilistiche della Germania (come Audi, Bmw, Mercedes) hanno stabilimenti in Ungheria. Niente da fare. Mi hanno risposto così: “Aspettiamo un finanziamento dal governo ungherese e non possiamo metterlo a rischio mettendo pubblicità su un giornale come il vostro”». La storia di Lukács ha un lieto fine: «I lettori ci finanziano, si abbonano, ci stanno facendo crescere». Ma il suo calvario racconta le difficoltà della stampa libera in Ungheria. 

(Csaba Lukács, direttore del settimanale ungherese Magyar Hang. Credit: www.hang.hu)

Il purgatorio di Lukács

Nell’aprile 2018, subito dopo le elezioni parlamentari che consegnano a Viktor Orbán il terzo mandato, il giornale per il quale Lukács aveva lavorato per diciotto anni, Magyar Nemzet, viene chiuso. Dal 2015 questo storico quotidiano conservatore era critico verso il governo «perché accentrava il potere su una cricca di oligarchi» dice Lukács. Proprio a lui è toccato l’ultimo editoriale, quello con il titolo “Vége”: “Fine”. «Il mio mondo è collassato ma mi sono detto: devo reagire, anche per lealtà verso i colleghi». Lukács inizia così a impostare un nuovo giornale, il Magyar Hang, con l’obiettivo di mantenere una voce libera e assumere pian piano i colleghi rimasti senza lavoro. «Non trovavo neppure una tipografia disposta a stamparci. Pensavo: “In un anno chiuderemo”». Invece sono sopravvissuti, «durante la pandemia siamo persino cresciuti, a colpi di duemila copie in più a settimana», ad agosto le copie totali erano dodicimila a numero. I ricavi di Magyar Hang arrivano al 95 per cento dagli abbonati (visto che gli inserzionisti si tengono a distanza); una piccola impresa che ha permesso «a 35 dei cento colleghi licenziati da Magyar Nemzet di avere un nuovo lavoro. E come giornalisti, non come propagandisti». 

(Budapest; foto Unsplash)

Essere giornalisti a Budapest

«In Ungheria se fai questo mestiere in modo libero sai che un bel giorno potresti svegliarti e scoprire che Orbán ha deciso che il prossimo bersaglio è il tuo giornale. Perdere tutto. Ricominciare da capo, senza sapere se ce la farai. Tutto questo capita non una, ma a volte persino cinque, sei volte» dice Attila Batorfy, che anche per questo motivo ora non fa il giornalista a tempo pieno; ogni tanto si dedica alle inchieste per il portale investigativo Atlatszo, più spesso studia i media e insegna giornalismo. Dall’Ungheria collabora con il Centre for media pluralism and media freedom, che fa capo allo European University Institute ed è cofinanziato dall’Ue. Il centro fotografa ogni anno lo stato del pluralismo in Europa. Nell’ultimo monitor, Batorfy e colleghi denunciano che in Ungheria il pluralismo e l’indipendenza dei media dalla politica sono gravemente compromessi. Anche il rapporto 2020 sulla libertà di stampa nel mondo di Reporters without borders relega l’Ungheria all’ottantanovesimo posto, peggio dell’anno prima. Il contatore che tiene la misura dei “giornalisti uccisi nel paese” è fermo a zero: non ci sono spargimenti di sangue, a Budapest; sono altri gli strumenti con i quali il premier controlla l’informazione.

Anzitutto usa i soldi: un ammontare crescente di finanziamenti pubblici viene dirottato sulla propaganda governativa (nel 2019 lo stato ha speso 450 milioni di euro in pubblicità; un aumento del cinquanta per cento rispetto all’anno prima, quando i milioni erano trecento). Oltre al denaro, lo strumento sono le pressioni: grazie a un controllo fortissimo del potere politico sul sistema economico, le concessioni pubblicitarie vengono dirette solo verso i media che piacciono al potere. Nel report di Batorfy e colleghi, la caratteristica principe dei media ungheresi oggi viene non a caso definita così: “Una influenza per procura, tramite prestanomi, marionette, oligarchi e legami di natura economica”. Stefano Bottoni, che alla deriva illiberale del premier ungherese ha dedicato il libro ”Orbán: un despota in Europa” (Salerno editrice, 2019), dice: «Proprio grazie alla cooptazione integrale o parziale di oligarchi e imprenditori, il primo ministro esercita il suo controllo indiretto sui media».  

(Il premier ungherese; foto LaPresse)

La piovra di Orbán  

La presa sull’informazione «è cominciata nel 2010-2011: gli ultimi sviluppi, che a voi italiani sembreranno scioccanti, sono da tempo la nostra quotidianità», dice Batorfy. Il 2010 è l’anno del ritorno al potere di Orbán (era stato premier anche tra 1998 e 2002) e della estensione graduale ma pervicace del suo controllo sull’informazione. Proprio dieci anni fa viene approvata, con qualche critica da Bruxelles, una legge sui media che avvia la colonizzazione del governo sui media pubblici; per esempio trasforma l’incarico di garante dei media in una emanazione del partito di governo. Nel 2016 il principale quotidiano di opposizione, Népszabadsag, chiude: lo rileva un prestanome, Heinrich Pecina, per poi farlo collassare. Questa operazione nel 2017 verrà descritta da Heinz-Christian Strache, l’allora leader dell’estrema destra austriaca, come “modello ungherese” da esportare. Il 2018 è l’anno di Kesma (Fondazione stampa e media dell’Europa centrale): gli oligarchi vicini a Fidesz hanno ceduto gratuitamente il loro portafoglio di azioni nel settore mediatico a una unica fondazione, convogliando così tv, giornali e radio in un solo colosso. Kesma raccoglie ora mezzo migliaio di prodotti editoriali: una concentrazione senza precedenti di media filogovernativi. Mentre Kesma diventa un gigante e Orbán esercita una presa sempre più tentacolare su società ed economia, nel frattempo le realtà libere cadono come caselle del domino. Chiudono, o peggio sopravvivono, ma vengono snaturate in organi di propaganda: così è successo al portale Origo. L’ultimo tassello risale a metà settembre e riguarda l’emittente privata e indipendente Klubradio, una delle radio più ascoltate nel paese, alla quale il garante (emanazione del governo) non intende rinnovare la licenza. La motivazione formale? "Ripetute violazioni delle regole” (non è specificato quali).  

(Veronika Munk assieme alla redazione nel giorno delle dimissioni dal sito Index. Il gruppo di giornalisti ora ha lanciatoTelex, e Munk ne è la direttrice)

Prove di ribellione  

Poi ci sono le eccezioni. La storia di Index, che fino a questa estate era uno dei siti di informazione più letti del paese, sarebbe finita nell’elenco delle testate non allineate “sconfitte”, se non fosse per il gesto di palese ribellione messo in atto dalla redazione. Le preoccupazioni della squadra si innescano a marzo, quando un oligarca assai vicino al premier, Miklos Vaszily, assume la proprietà del cinquanta per cento di Indamedia, la concessionaria pubblicitaria che alimenta il sito. L’allora direttore di Index, Szabolcs Dull, fiuta il cambio di rotta e lo denuncia: “Siamo in pericolo”, scrive a giugno. Il conflitto con l’amministratore delegato porta al licenziamento di Dull, ma la redazione si schiera con il suo direttore e il 24 luglio più di settanta giornalisti si dimettono. Veronika Munk, che era entrata a Index come stagista diciotto anni fa fino a diventarne vicedirettrice, «per poi vedere tutto cambiare d’un colpo», dirige ora un nuovo progetto creato assieme al resto dei dimissionari: è un portale giornalistico e si chiama Telex. «Siamo pronti ad affrontare ogni rischio per far sì che in Ungheria ci siano ancora pluralismo e indipendenza» spiega Munk.  Come faranno a resistere alle pressioni? «L’unica garanzia di libertà sono i lettori. Il 4 settembre abbiamo avviato una raccolta fondi e il risultato è sorprendente: in una sola settimana ci hanno già sostenuto quasi trentamila futuri lettori. Ora abbiamo i fondi per sostenere una redazione di  cinquanta persone, se non di più». La redazione è determinata a «dare all’Ungheria ciò che le è venuto a mancare: una testata affrancata dal potere». 

(La commissaria europea Vera Jourova durante l'intervista)

Cosa fa l’Unione europea 

Ma nel frattempo cosa fa l’Ue di fronte alla crisi del pluralismo in un suo stato membro? La commissaria europea Vera Jourova ha nel suo portafoglio la “rule of law” (il rispetto dello stato di diritto) e ammette: «Stiamo mostrando tutta la nostra incapacità, come Ue, di essere efficaci. Intanto la situazione si aggrava e la fiducia cala». Nel 2018 l’europarlamentare verde Judith Sargentini, grande accusatrice del premier magiaro, firmò un rapporto che denunciava l’attacco a libertà e democrazia in corso in Ungheria; chiedeva di verificare le violazioni in atto, in nome dell’articolo 7 del trattato dell’Ue. Ma quella procedura richiede l’unanimità: basta che due paesi sotto accusa, come Polonia e Ungheria, stringano una alleanza tattica (come finora hanno fatto) per bloccare tutto. «Non basta più l’articolo 7» dice ora Jourova, «serve un altro sistema. Con la crisi da Covid-19 sono aumentati gli stanziamenti Ue: bisogna vincolare quei fondi al rispetto dei valori comuni». Quando i capi di stato e di governo si sono accordati a luglio sul piano di ripresa e sul bilancio europeo, la rule of law è stata ridotta a un vago richiamo. L’Ungheria fa da freno: anche ora, che il piano deve passare al vaglio dei parlamenti nazionali, Budapest minaccia di non dare il via libera se si insiste con il rispetto dello stato di diritto. La commissaria dice che «qualcosa si può ancora ottenere». Il compromesso «all’insegna del pragmatismo» è adottare procedure stringenti ma con raggio d’azione limitato: «Su aspetti come il sistema giudiziario e il contrasto alla corruzione bisogna pretendere il rispetto dello stato di diritto come garanzia di investimenti e finanze comuni». Rimangono fuori però altri aspetti, come la libertà dei media. In quel campo per ora sono i lettori, la sola garanzia di sopravvivenza per una testata libera.

(A destra, la commissaria europea Vera Jourova, qui con la commissaria Margrethe Vestager. Foto LaPresse)

© Riproduzione riservata