«Se prendiamo come paragone l’epoca di Ben Ali, quella l’abbiamo superata da tempo. Ben Ali era un dittatore che ha fatto tanto male, però era un “piccolo giocatore" in confronto a Kais Saied. Il regime di oggi è peggiore. E pensare che si era presentato come un ex avvocato costituzionalista e uomo del popolo che voleva riformare il paese. Tutto questo è cambiato nel giro di due anni». A parlare è Ramla Dahmani, sorella di Sonia, l’avvocata arrestata l’11 maggio del 2024 dalle autorità tunisine in diretta televisiva con un blitz da parte di servizi di sicurezza tunisini. Contro di lei ci sono cinque capi d’imputazione diversi, tutti che fanno riferimento alle critiche espresse nei confronti delle istituzioni.

Sui social network, in radio e in tv Sonia Dahmani ha denunciato soprattutto le condizioni delle carceri tunisine e le violazioni commesse dalle forze di polizia a danno dei migranti subsahariani che vivono nel paese. Oggi Ramla paga a caro prezzo la sua esposizione mediatica. Non può più tornare in Tunisia ed è tornata a Parigi dove da anni vive con la sua famiglia. «Sono dovuta scappare perché volevano arrestare anche me», racconta a Domani. «Sono stata condannata a due anni solo per aver difeso mia sorella».

Ramla parla con Sonia solo attraverso gli avvocati, i quali hanno la possibilità di vederla due volte al giorno, quando gli garantiscono accessi alla prigione. Le poche volte che i famigliari riescono a vedere Sonia di persona c’è un vetro a dividerli e un telefono per comunicare. In questi mesi, Ramla ha provato ad avviare anche un’intensa attività diplomatica e di pressione. «Le promesse del governo francese, di quello italiano, del Consiglio d’Europa e dell’Onu ci sono, ma finora non ho abbiamo visto nulla di concreto», dice con rammarico.

Processo

Nell’ultima udienza del processo erano presenti anche osservatori internazionali. Tra questi anche l’avvocata Barbara Porta del Foro di Torino, presidente della commissione Diritti umani del Ccbe (Consiglio degli Ordini forensi d’Europa). Per Porta, che è già stata più volte osservatrice in Turchia, era la prima volta in Tunisia.

«Abbiamo avuto al mattino una riunione con il pool difensivo di Sonia Dahmani e alcuni rappresentanti del consiglio dell’ordine degli avvocati che ci hanno raccontato la grave situazione in cui versa la giustizia», dice Porta. «In Tunisia il potere giurisdizionale non è un potere autonomo indipendente, ma è totalmente asservito all'esecutivo», aggiunge. Nel paese governato da Kais Saied sono sempre più frequenti le violazioni dei diritti fondamentali, c’è un forte attacco all'indipendenza di quei giudici che cercano di rimanere indipendenti e gli avvocati rischiano di essere carcerati come Dahmani.

«Aumentano gli arresti, le denunce e i procedimenti anche di tipo amministrativo disciplinare contro gli avvocati», spiega Porta.

Il clima in Tunisia è sempre più teso. Le autorità hanno provato a bloccare la delegazione internazionale giunta per seguire il processo contro l’avvocata. «All’inizio c’è stata una forte discussione con la polizia che non voleva farci entrare, ma alla fine ci siamo riusciti», commenta l’osservatrice. «L’aula era gremita di persone. Sonia era al centro e attorniata da sei o sette poliziotti, neanche fosse una terrorista».

È apparsa magra in volto anche per via dei problemi di salute. Nonostante gli avvocati abbiano documentato le sue condizioni non sono state prese contromisure. Le autorità carcerarie non le hanno neanche autorizzato le visite mediche. «Per il momento Sonia è ancora forte, non molla. Anche se il suo corpo sta crollando», dice Ramla. «Vogliono farla cedere, perché deve essere un esempio per gli altri, per quelli che sono fuori. Così che vedono cosa succede in carcere e tacciono». 

L’avvocata è imputata in cinque procedimenti distinti, tutti basati sul controverso Decreto Legge 54 del 2022 (noto come legge “anti‑fake news”). È accusata di aver diffuso informazioni false con l’obiettivo di nuocere alla sicurezza pubblica, incitamento all’odio e di critiche al governo. «Nei confronti di Dahmani c’è una vera e propria persecuzione giudiziaria», dice Porta che in aula ha assistito alla pronuncia della sentenza di condanna a due anni di reclusione.

Tunisia paese insicuro

«Il governo tunisino non potrebbe fare tutto ciò che sta facendo se l’Italia e l’Europa non lo finanziassero affermando che sia un paese sicuro. Non so per chi sia sicuro, né per i tunisini né per i migranti; forse è sicuro per le frontiere europee, ma non di più. Oggi l’Italia e l’Europa non sono più soltanto complici, sono attori attivi di quello che sta succedendo in Tunisia», dice Ramla.

Il sostegno della società civile è «ancora presente» ma il rischio è di rimanere soli. «In Tunisia c’è il regno del terrore, ogni giorno si alzano sempre meno voci per denunciare ciò che succede», aggiunge. «Oggi, non si limitano più ad arrestare gli attivisti, ma anche i famigliare che provano a sostenerli». Attualmente sono sette gli avvocati detenuti e circa 50 quelli che sono a processo. Tutti per reati di opinione.

© Riproduzione riservata