Raqqa e Deir Ezzor sono tuttora in rovina: le capitali dell’Isis in Siria tardano a rimettersi in piedi dopo una guerra che in realtà non è mai terminata. Nelle due provincie dell’est siriano cellule dello Stato islamico sono ancora attive e molti credono che i rifugiati tornati dai campi profughi siano degli infiltrati, in specie chi proviene da al Hol. Come in tutta la Siria mancano i servizi e non c’è lavoro ma per chi è sospettato di aver fatto parte del gruppo terrorista la vita è ancor più difficile. Non ci sono scuole, ospedali e talvolta nemmeno i mercati. Molta gente vive tra i ruderi e in case diroccate: saranno riparate solo quando sarà possibile comprare liberamente cemento e mattoni.

L’inferno di Baghuz

Nell’ultima roccaforte dell’Isis, Baghuz, non è rimasto in piedi nulla. Molte famiglie hanno ridotto il numero dei pasti giornalieri per mancanza di cibo. Le Ong internazionali presenti in area sono poche e mal sopportate dalle autorità siriane. Per tali ragioni devono utilizzare personale locale non sempre affidabile. Alcuni agenti locali di grandi Ong chiedevano favori sessuali o in denaro per consegnare derrate in teoria gratuite. Quando non c’è tale tipo di corruzione, esiste sempre la possibilità che il governo vieti di distribuire in certe zone o a certe popolazioni. Purtroppo nemmeno nella zona curda l’attività umanitaria internazionale è totalmente libera nei propri movimenti.

Chi torna al proprio villaggio dopo anni di assenza è spesso oggetto di ostracismi di vario tipo. Il clima di sospetto tra vicini è moneta corrente: in zona governativa chi torna è accusato nemmeno tanto velatamente di aver tradito il paese, soprattutto se sunnita. È il destino delle decine di migliaia di siriani tornati dal Libano: tante promesse ma poi la triste realtà dei fatti è dover subire vessazioni continue da parte dei sostenitori del regime. Quest’ultimo non dà accesso alle case di prima: si sta operando un attento dosaggio etnico in modo da spezzare la continuità geografica dei sunniti, mescolandoli con sciiti e altre minoranze anche di provenienza straniera.

Quindi si può essere mandati in un villaggio o in un quartiere che non erano i propri. Per i profughi siriani rientranti, ottenere documenti nuovi è un’impresa. Inoltre chi deve rivolgersi ai curdi sa che al massimo potrà ottenere documenti non riconosciuti nel resto del paese: una complicazione in più. Le autorità sorvegliano da vicino tutti quelli che tornano: una situazione al limite della paranoia che disgrega le famiglie e favorisce la corruzione. È ovvio che in una popolazione sprovvista di documenti, le possibilità di orridi commerci di ragazze e bambini aumenta esponenzialmente. D’altra parte è stato documentato che ciò capitava già nei campi profughi in Turchia o Giordania, dove ricchi arabi del Golfo andavano a scegliersi spose bambine siriane. In altri modi ciò continua anche nella Siria odierna. Molte famiglie siriane che hanno scelto di ripresentarsi nei propri villaggi rimpiangono di aver lasciato i campi: pur sotto le tende almeno avevano accesso al cibo, all’acqua e a un minimo di sicurezza. Ora invece sono del tutto in balia di concittadini ostili.

Il rischio di un ritorno

La gente ha paura di tutto ciò che evoca l’Isis non soltanto a causa dei cattivi ricordi ma anche per le notizie che si susseguono sulla rinascita dello Stato islamico. Attacchi contro le forze lealiste hanno costellato la fine d’anno e con il 2021 si è inaugurata anche la fase di attentati ai russi, cosa mai avvenuta prima. I jihadisti si riorganizzano in piccole cellule aggirandosi minacciosi nelle provincie orientali siriane. Malgrado non ci siano stati danni, i russi lamentano attacchi con droni artigianali contro la base aerea di Hmeimim. Chi subisce di più è l’esercito lealista di Assad: almeno 39 uccisi a fine anno nei pressi di Shula, provincia di Deir Ezzor, e continue imboscate.

Gli scontri avvengono per lo più a sud della città, nelle zone desertiche dove i jihadisti si muovono con una certa destrezza. I russi bombardano per coprire le operazioni dell’esercito regolare ma è sempre più difficile ottenere dei successi visto che la tattica è cambiata. Prima lo Stato islamico si mostrava a viso aperto e accettava le battaglie campali mentre ora si nasconde. A gennaio sono stati uccisi altri 15 soldati siriani a est di Hama mentre a sud di Raqqa sono stati uccisi 10 iraniani. Ci sono anche assassinii mirati come quello di un capo tribù sunnita alleato di Damasco: un modo per intimidire bloccando ogni possibile riconciliazione. Due donne sono state uccise dell’Isis nella zona di Hassaké. Autobombe sono esplose in queste settimane a Hassaké, Qamishli e Afrin causando molte vittime: non è chiaro chi le abbia fatte brillare ma è evidente che la cosiddetta zona di sicurezza è solo un’illusione.

Alla fine si constata che la separazione delle aree di influenza tra russi, turchi, siriani lealisti, curdi e americani non giova al controllo del territorio ma permette ai resti dello Stato islamico di riattivarsi. La guerra sarà ancora lunga.

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