C’è stato un tempo in cui era facilissimo individuare al Congresso i fautori di una linea dura di scontro contro l’Iran, tanto da arrivare fino a proporre il rovesciamento del governo degli ayatollah. Ai tempi della presidenza di George W. Bush era quasi tutto il partito repubblicano a essere su quelle posizioni, al netto di qualche solitario oppositore di convinzioni libertarie e isolazioniste.

Questa linea, con il tempo, è diventata uno degli elementi costituenti dell’America First trumpiana, che oggi ha ampiamente sostituito il neoconservatorismo muscolare di matrice bushiana. C’è però ancora una presenza significativa di “falchi” di questo tipo, e dopo l’attacco subito da Israele nella notte tra sabato e domenica si sono in parte rianimati. Lo scorso 29 gennaio si è visto però che non sono maggioritari. Quando tre soldati americani sono morti in Giordania per un attacco sferrato da una milizia legata all’Iran, alcuni esponenti repubblicani della vecchia guardia hanno invitato l’amministrazione di Joe Biden a fare qualcosa e ad attaccare direttamente obiettivi sul suolo iraniano, l’ex conduttore di Fox News Tucker Carlson, ora diventato imbonitore populista con il suo show su misura che viene trasmesso su X, l’ex Twitter, ha attaccato questi politici definendoli «fottuti squilibrati».

Dopo l’attacco

Ora le cose potrebbero cambiare, almeno in parte. Anche perché uno dei falchi è il leader della minoranza repubblicana al Senato, Mitch McConnell: in un comunicato diffuso poco dopo l’attacco subito da Israele, ha invitato l’amministrazione di Joe Biden a far seguire «alle parole i fatti» e dimostrare questo sostegno. D’altro canto, ha anche invitato il Congresso «a fare la sua parte». Evidente riferimento allo stallo in cui è rimasto il disegno di legge sugli aiuti militari a Ucraina, Israele e Taiwan approvato dal Senato a larga maggioranza a inizio marzo.

Essere dei falchi anti ayatollah però non allontana dal trumpismo in modo totale: è uno di loro il senatore del South Carolina Lindsey Graham così come lo è Tom Cotton. Nel suo caso poi l’impegno nel voler ridurre ai minimi termini il regime è assoluto: fu proprio lui nel 2015, fresco di prima elezione l’anno prima con un background di studi a Harvard e l’esperienza da veterano dell’Iraq, a promuovere la scrittura di una missiva indirizzata proprio al governo di Teheran che metteva in discussione la legittimità dei colloqui che allora si stavano svolgendo con l’amministrazione Obama per concedere l’uso pacifico dell’energia nucleare.

Consultazioni che stavano avvenendo insieme ad altri attori come Unione europea, Cina, Russia, Francia, Germania e Regno Unito. Allora firmarono ben 47 senatori su un totale di cinquantaquattro. Una scelta con pochi precedenti che però non impedì la firma dell’accordo il luglio di quell’anno, del quale gli Stati Uniti avrebbero fatto parte fino al luglio 2018, quando l’amministrazione Trump sarebbe tornata a una politica di dure sanzioni militari.

Attacco allo speaker

Cotton, quindi, è stato una sorta di trait d’union tra il vecchio partito repubblicano e quello trumpiano, anche se ora i sostenitori più accesi dell’ex presidente promuovono un isolazionismo quasi totale. Sostegno a Israele sì, ma possibilmente da lontano, perché nell’opinione di quelli come Tucker Carlson nulla conta di più di mandare le truppe al confine con il Messico per fermare il flusso migratorio. D’accordo su questa linea bellicista c’è anche uno dei più fedeli trumpisti, Lindsey Graham del South Carolina, che in questo concilia il suo essere stato in anni sempre più lontani uno dei più stretti alleati del senatore dell’Arizona John McCain.

Anche alla Camera non mancano i sostenitori accesi dello scontro: prevedibilmente, i presidenti delle commissioni riguardanti la difesa e l’intelligence, Mike Rogers e Mike Turner, così come il texano Michael McCaul della commissione esteri e chi lavora su questi temi in modo pragmatico: è il caso del rappresentante del Nebraska Don Bacon.

Tutte queste figure politiche, dalla sera dell’attacco, sono concordi nel dire che non è più tempo per gli indugi: Israele va aiutata rapidamente e il modo migliore per farlo è calendarizzare il disegno di legge già approvato dal Senato. E pazienza se i trumpiani di nuovo conio storceranno il naso e una di loro, la deputata della Georgia Marjorie Taylor Greene, spinge per una mozione di sfiducia nei confronti del debole speaker Mike Johnson, stretto nella morsa tra il rispetto delle istituzioni e le pressioni del Freedom Caucus che obbedisce fedelmente ai diktat dell’ex presidente. Non si pensi però che questo mood possa durare a lungo: passata l’emergenza, probabilmente, nel partito repubblicano riprenderanno ad alzarsi le voci neoisolazioniste, accompagnate dagli improbabili alleati dell’estrema sinistra del partito democratico. Loro sì coerenti rispetto al passato recente.

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