L’attacco militare iraniano contro Israele del 13 aprile non è stato solo una prova militare per gli Stati Uniti, ma anche un test diplomatico senza precedenti dato che è stato il più vasto attacco aereo ricevuto da Tel Aviv dal 7 ottobre scorso. A pesare ancora di più è la tempistica, visto l’isolamento a livello internazionale del governo di Benjamin Netanyahu.

Alla difesa dello stato ebraico hanno partecipato – con sorpresa ma non troppa – anche diversi paesi arabi dell’area: dalla Giordania all’Arabia Saudita, ognuno ha fornito il suo aiuto. Lo hanno fatto divulgando dati di intelligence giorni prima l’attacco, mettendo a disposizione i loro caccia e comunicando informazioni militari chiave per mitigare i danni ed evitare un’escalation che rischia di essere catastrofica per l’intera area. È il primo risultato di un lungo lavoro fatto di incontri più o meno informali e più o meno segreti che si sono tenuti negli ultimi anni in Medio Oriente sotto l’egida dell’amministrazione Biden.

La difesa

Mentre l’opinione pubblica era in attesa di capire cosa sarebbe successo durante le ore più concitate di sabato sera, l’attacco non ha colto impreparati Israele e i suoi alleati che erano al cosciente di tutto. Giovedì scorso alti funzionari iraniani hanno informato i vertici militari dei paesi del Golfo Persico del loro piano, dei 300 tra droni e missili balistici iraniani hanno infatti dovuto attraversare il loro spazio aereo. Le informazioni sono state trasmesse direttamente a Washington che ha avuto modo di avvertire per tempo il gabinetto di guerra israeliano e organizzare le difese.

Non appena i droni Shahed sono saliti in volo sono stati intercettati dai radar dei paesi arabi collegati alla base operativa statunitense in Qatar e da lì le informazioni sono state trasmesse agli alleati. Gran parte dei droni e dei missili, infatti sono stati abbattuti da caccia israeliani e statunitensi ma anche da aerei di Francia, Giordania e Regno Unito.

Secondo quanto scritto dal Wall Street Journal, la Casa Bianca ha agito nell’ambito della Middle East Air Defense Alliance (Mead), l’alleanza militare di difesa aerea nata sulla scia degli accordi di Abramo di cui fanno parte diversi paesi arabi del Golfo e Israele. «È stata la prima volta che abbiamo visto l’alleanza lavorare alla sua massima potenza», ha detto sotto anonimato un funzionario israeliano coinvolto nella sicurezza della regione al Wsj.

La Mead

L’alleanza, finora tenuta fuori dai media per evitare dissidi interni alle monarchie arabe vista la cooperazione militare con Israele, si è strutturata dopo lunghe trattative e incontri, avvenuti tra il Cairo, Tel Aviv, Riad e Sharm el Sheikh. L’obiettivo è quello di coordinare le varie forze militari (tra cui quelle di Arabia Saudita, Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Oman, Egitto e Kuwait) e favorire l’interscambio di informazioni di intelligence per arginare il pericolo di un attacco iraniano.

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Da parte israeliana l’alleanza si è sviluppata quando a capo del ministero della Difesa c’era Benny Gantz, non è un caso se è stato richiamato da Netanyahu per far parte dell’attuale gabinetto di guerra, e in un momento in cui Teheran aveva incrementato le sue capacità militari costituendo una minaccia sia per i paesi arabi sunniti sia per Washington e Tel Aviv. Nel giugno del 2022 Gantz aveva detto pubblicamente: «Questo programma è già operativo e ha già permesso di intercettare con successo i tentativi iraniani di attaccare Israele e altri paesi».

Il punto di svolta è avvenuto nel settembre del 2021, quando il Pentagono ha spostato Israele dal suo Comando militare europeo a quello centrale (Centcom), dove è inclusa l’area del Medio Oriente. Una mossa che ha rafforzato la cooperazione militare con gli arabi.

Il Centcom è il centro di comando che coordina anche la missione militare “Prosperity guardian” nata per arginare gli attacchi degli Houthi nel mar Rosso (sostenuti dall’Iran), dove in anonimato partecipano anche paesi arabi. La prova di forza della Mead ha dimostrato che nessuno di loro ha intenzione di arrivare a un’escalation militare. Resta a Netanyahu decidere che farne, se assestarsi sulla linea della de-escalation o attaccare e capire quanto possa reggere l’alleanza.

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