Caccia al killer di Kirk, Trump soffia sul fuoco: «È colpa della sinistra»

Gli investigatori hanno trovato l’arma da fuoco che molto probabilmente è stata usata per uccidere Charlie Kirk, l’attivista ultraconservatore freddato con un singolo proiettile al collo mentre teneva un dibattito nel campus della Utah Valley University. L’agente speciale dell’Fbi che dirige l’ufficio di Salt Lake City ha detto che si tratta di un fucile da caccia, ritrovato in un’area boschiva ai margini del campus. Su questa la polizia scientifica sta lavorando per isolare impronte e altri elementi utili per identificare lo sparatore. Gli investigatori si stanno concentrando in particolare sull’impronta di un palmo della mano e su un’orma del piede. L’attivista conservatore Charlie Kirk ucciso durante un incontro nel campus. Trump: «Un martire per la verità» L’arma del delitto Secondo fonti riportate dal Wall Street Journal, nell’arma del delitto e nelle cartucce ritrovate erano presenti «espressioni dell’ideologia transgender e antifascista». Questa informazione fa probabilmente riferimento a un memo fatto circolare negli ambienti della polizia, la cui attendibilità è però è messa in dubbio da altri funzionari delle forze dell’ordine. Pochi istanti prima di essere ucciso, Kirk stava discutendo delle stragi in America e gli avevano chiesto quante di queste erano state eseguite da persone transgender. «Troppe», ha detto. Alcuni testimoni hanno messo insieme questi elementi per sostenere che si è trattato di un’azione coordinata, e non di un’iniziativa solitaria, ma in questo tipo di indagini le impressioni sono nemiche delle prove. Le autorità sono in possesso di diversi video di buona qualità che ritraggono l’assassino, che nelle conferenze stampa di aggiornamento sul caso è stato sempre descritto al maschile. Dalle ricostruzioni, il soggetto è arrivato nella zona dell’incontro di Kirk poco prima di mezzogiorno, è salito sul tetto di uno degli edifici della zona con una visuale libera verso il gazebo sotto il quale l’attivista e podcaster stava seduto, rispondendo e argomentando alle domande del pubblico. Ha sparato un singolo colpo mortale e poi è saltato dal tetto, fuggendo attraverso l’area dove ha abbandonato l’arma. Tutte le batoste che rendono Trump sempre più pericoloso Si pensa che la preparazione dell’attentato e poi la fuga siano state agevolata dal fatto che lo sparatore si mimetizzava bene fra la folla: la polizia ha ristretto le ricerche a persone in età universitaria o che possono essere prese per tali. Per il momento, tuttavia, hanno deciso di non rendere pubblici i filmati raccolti, e si sono limitati a diffondere solo un paio di screenshot del soggetto. Segno che gli inquirenti per il momento hanno fiducia di poter risalire alla sua identità senza aprire in questa fase la dinamica delle segnalazioni pubbliche, che aiutano e complicano allo stesso tempo. «Speriamo di prenderlo», ha detto Donald Trump dal Pentagono, dove ha partecipare alla cerimonia commemorativa delle stragi dell’11 settembre 2001. Il giorno dopo il brutale assassinio avvenuto praticamente in diretta social gli aggiornamenti sono sulla caccia all’uomo, ma i pensieri sono sull’impatto che questo devastante gesto avrà su un paese ferito dalla violenza ma che ancora deve fare i conti con l’ambiguo aggettivo “politica”, che in queste ore le viene automaticamente messo accanto. Molti degli episodi recenti di violenza verso figure pubbliche – a partire dall’attentato fallito a Trump durante la campagna elettorale –solo a fatica rientrano in una definizione strettamente intesa di violenza politica. Più spesso ci si trova di fronte a profili solitari e disturbati mossi da un groviglio irrazionale di rimostranze, odio, disperazione e frustrazione esistenziale. Sono mani armate che brancolano cercando un totem da abbattere, non hanno un programma da portare a termine. E forse proprio questo aspetto di insondabile disagio è perfino più preoccupante della tradizionale violenza politica. Il nucleare “autarchico”, se anche l’energia rientra nella sbronza dominatoria di Trump Politicizzare il sangue Da parte sua, Trump ha deciso di politicizzare il caso in modo frontale. In un video diffuso sui social poche ore dopo l’assassinio, il presidente ha parlato di «un momento buio per la nazione», ferita da una serie di episodi di violenza, ma ha dato la colpa alla «sinistra radicale» e alla sua retorica che è «direttamente responsabile per il terrorismo che vediamo oggi». La violenza della sinistra «ha ucciso troppi innocenti», ha detto, inserendo l’omicidio di Kirk in una serie di atti violenti diretti esclusivamente a esponenti del mondo conservatore. Come hanno notato in molti, c’è un’amara ironia nel fatto che questo tipo di argomento venga offerto dopo la morte di un attivista che ha raggiunto milioni di giovani facendo leva sul libero dibattito con gli avversari, sull’argomentazione serrata e a viso aperto, un conservatore che ha capito prima di molti altri che per diffondere le sue idee non doveva rinchiudersi nelle bolle del pensiero conforme ma affacciarsi sulla piazza pubblica e confrontarsi. Il vuoto lasciato da Trump nel mondo post-americano Lo ha fatto a partire dai campus universitari, luoghi dove tradizionalmente il pensiero conservatore è minoritario, e lì ha sfidato anche i vecchi cliché della destra elitaria che preferisce l’introflessione alla discussione. Con il piglio sfrontato e appassionato dell’evangelizzatore, Kirk ha aperto nuovi orizzonti a un mondo conservatore che sembrava diventato afono nel dibattito pubblico. “Prove me wrong!”, dimostratemi che ho torto, era uno degli slogan che ricorrevano nei suoi incontri e dibattiti pubblici. Era scritto anche sul gazebo in mezzo al campus sotto cui era seduto, intento a rispondere alle domande degli studenti, interrotte da uno sparo mortale.