La febbre dell'oro tagiko, il potere delle albicocche

Cibo è il nostro inserto mensile che racconta il mondo attraverso ciò che mangiamo. Esce l’ultimo sabato di ogni mese sulla app di Domani e in edicola. In ogni numero svisceriamo un tema diverso con articoli, approfondimenti e commenti: il tema del numero di questo mese è la frutta che diventa un lusso. Qui troverete man mano tutti gli altri articoli di questo numero. In questa pagina, invece, tutti gli altri articoli di Cibo, che è anche una newsletter gratuita. Ci si iscrive a questo link. A tutti è nota la sensazione frustrante di addentare un’albicocca soda e satura di colore, per poi realizzare che è acida, o non sa di niente. In un paese dell’Asia centrale questa sensazione può dare anche delle fitte di angoscia, perché significa che quella partita di albicocche è venuta male e non varrà niente. Pochi lo sanno infatti, ma circa il 10 per cento di tutte le albicocche del mondo cresce in una sola piccola area del Tagikistan settentrionale: la regione di Sughd, nella celebre Valle di Fergana, dove in soli quattro distretti si concentra un numero di frutteti di albicocco senza paragoni a livello mondiale. Qui, l’albicocca non è un frutto qualsiasi. Essiccata diventa kuraga, una sorta di moneta parallela che per molti, simbolicamente, vale più della valuta nazionale, il somoni. È risparmio, garanzia: un asset naturale. Meloni, manghi e uva pagati a peso d’oro: il caso giapponese e noi Kuraga Il Tagikistan, un paese dell’ex Unione Sovietica diventato indipendente nel 1991 e confinante con il Kirghizistan, la Cina, l'Afghanistan, e l’Uzbekistan, possiede più di 50mila ettari di frutteti di albicocco, secondo solo alla Turchia. Secondo EastFruit (piattaforma internazionale di informazione e analisi dedicata al settore ortofrutticolo), il paese produce ogni anno 200-220mila tonnellate di frutta, di cui circa 45mila vengono seccate e dunque trasformate in kuraga. Per ottenere un chilo di kuraga servono da 3 a 5 chili di albicocche fresche: da lì nasce un giro d’affari da 120 a 180 milioni di dollari annui, fondamentale per un’economia in via di sviluppo. A giugno, con l’inizio della raccolta, fino a qualche tempo fa nella regione di Sughd era possibile vedere medici, insegnanti e dipendenti pubblici riversarsi in massa nei frutteti. Per chi non possiede alberi, c’è la possibilità dell’affitto dell’albero: interi ettari presi in anticipo a mille o duemila dollari, ma anche famiglie che arrivano a investire 20mila dollari in contanti. La lavorazione è semplice ma estenuante: i frutti vengono scossi dai rami, trattati con anidride solforosa (solo le grosse aziende, non i privati), lasciati asciugare al sole cocente, senza l’uso di combustibili fossili. Una volta portati a casa, i sacchi di kuraga diventano un tesoro da custodire: raramente vengono venduti subito, perché d’estate i prezzi ovviamente sono bassi; meglio aspettare la primavera, quando il valore può raddoppiare. Con 3-10 chili si pagano materiali scolastici, feste, matrimoni: è un risparmio che non si svaluta, che accompagna i ritmi della vita quotidiana. Il valore simbolico Ma la centralità dell’albicocca non si esaurisce nel commercio. Irna Hofman, sociologa rurale che studia il Tagikistan dal 2012, lo ricorda chiaramente: «Per alcune famiglie, le albicocche e i loro alberi hanno un enorme valore economico e culturale». Non a caso il paese ha eretto un monumento all’albicocca colorata al centro di una rotonda di Isfara, capitale della regione delle albicocche; un grande orgoglio cittadino. E non a caso negli ultimi anni alcuni personaggi hanno proposto di introdurre Indicazioni Geografiche Protette (Ig) per valorizzarne il mercato. Ma Hofman invita alla cautela: «In un contesto di forti gerarchie di potere, chi decide cosa? Fino a che punto si offrono percorsi di sviluppo e fino a che punto li si impongono?» Una domanda che pesa quando si parla di comunità rurali e resilienza. Il potere dell’albicocco Secondo la scienziata sociale Asel Murzakulova, che si occupa di Asia centrale, l’albicocca ha un’ enorme importanza sociale. Nel suo Environmental Humanities in Central Asia (Routledge, 2024) dice: «Il ciclo di vita dell’albicocco coinvolge gli abitanti rurali nelle attività quotidiane di coltivazione e raccolta, ma anche nei momenti di crisi: quando soffre la sete, subisce infestazioni o gelate, o perde i frutti. Questi processi plasmano il comportamento delle persone, costringendo alcuni membri della famiglia a migrare, imponendo la negoziazione dei prezzi nei bazar transfrontalieri o richiedendo collaborazione per irrigare i frutteti anche durante fasi di conflitto. È ciò che definisco il potere dell’albicocco». Un’importanza che resiste anche nei momenti più drammatici. Nel settembre 2022, il confine tra Tagikistan e Kirghizistan è stato teatro del più grave scontro armato dall’indipendenza, di cui quasi nessuna notizia è arrivata in Occidente: oltre cento vittime, centinaia di migliaia di sfollati, villaggi distrutti. Eppure, anche nei luoghi colpiti, la coltivazione e lo scambio di albicocche hanno continuato a scandire la vita economica. Murzakulova conferma che, per chi vive nella valle del fiume Isfara, l’albicocca è come “l’oro locale”, e non solo in senso metaforico: gli alberi accompagnano la vita delle famiglie come un orologio naturale — una buona stagione porta stabilità, una cattiva stagione può determinare migrazioni forzate. Lo racconta Aizhamal, abitante del villaggio kirghiso di Kara-Bak, intervistato da Murzakulova: «Comincerò a vendere le albicocche secche verso settembre, prima che i bambini vadano a scuola, per comprare vestiti e materiale scolastico per loro. Ne tengo sempre circa 30 chili di riserva fino alla primavera, mentre circa 70 chili li vendo gradualmente, a seconda di quando ho bisogno di contanti. Mi aiuta se devo contribuire a un toy [cerimonia tradizionale] o comprare qualcosa per i bambini o altre necessità familiari». Dove la frutta è oro: viaggio nei supermercati più costosi del mondo Il futuro è incerto Dopo l’indipendenza, la domanda internazionale ha spinto la valle verso la monocoltura, con piantagioni massicce di albicocchi. Questo ha sicuramente favorito il boom economico, ma anche la diffusione di malattie, e poi negli ultimi anni la coltivazione delle albicocche in Tagikistan sta affrontando difficoltà crescenti a causa del cambiamento climatico, e la cosa non sorprende. Secondo un articolo del The New Indian Express, la regione di Isfara, considerata la capitale dell’albicocco e sede del 10 per cento dei frutteti mondiali secondo dati Onu, è quella particolarmente colpita: inverni miti, lo scioglimento dei ghiacciai, gelate tardive e scarsità d’acqua stanno mettendo a rischio un settore che impiega oltre 100mila persone e che è vitale per l’economia e la società rurale. I contadini riportano che la mancanza d’acqua ha già trasformato alcuni terreni in zone aride, facendo seccare gli alberi, mentre le piogge intense rovinano i frutti con macchie e spine sulla buccia. Anche le gelate improvvise, un tempo sconosciute, si verificano sempre più spesso e possono compromettere interi raccolti. Le autorità locali e i produttori stanno cercando di adattarsi: sono stati rigenerati 1.500 ettari di terreni poco produttivi, si sperimentano impianti intensivi e sistemi di irrigazione a goccia, e alcuni agricoltori stanno passando alla coltivazione delle prugne, più resistenti alle variazioni climatiche. Tuttavia, l’aumento delle tariffe per l’acqua e i bassi redditi medi rendono difficile sostenere i costi delle innovazioni. Per non parlare della forza lavoro. Gli agricoltori con grandi frutteti (nella parte settentrionale) si trovano sempre più spesso ad affrontare carenze di manodopera, dato che la popolazione continua a migrare. Così, mentre per generazioni l’albicocco è stato una sicurezza economica per le famiglie locali, oggi i cambiamenti climatici stanno rendendo questo pilastro sempre più fragile. Eppure, nonostante le difficoltà, quando le famiglie migrano portano con sé piantine di albicocco, piccole portatrici di speranza e continuità. [Missing Caption][Missing Credit]