«Non possiamo rientrare in casa, non è più sicuro per noi. Viviamo all’aperto, non sappiamo cosa succederà». Hamida, 22 anni, è una ragazza afghana, abita in un piccolo villaggio in un distretto della regione di Herat, nel nord-ovest del paese.

Quando un mese fa, il 7 ottobre, una forte scossa di magnitudo 6.3 ha colpito una grossa area a circa 35 chilometri dalla città polverizzando interi villaggi la sua vita, come quella di altre decine di migliaia di persone, è stata stravolta.

Da quel primo terremoto infatti, Hamida vive in una tenda sistemata fuori dal contenitore vuoto che oggi è diventata la sua casa, perché tornare dentro è troppo pericoloso. Un’enorme crepa è apparsa su muri e soffitti, tagliando in due la struttura come un coltello affilato e rendendola inabitabile.

Ma durante la notte le temperature scendono vertiginosamente. Sua madre e sua sorella, racconta, si stanno ammalando. Roqia, 23 anni, è una sua amica e vive nello stesso villaggio. Quella mattina ha sentito le mura della sua casa iniziare a tremare con violenza. Dopo essere corsa fuori si è trovata circondata da decine di persone che gridavano e correvano per mettersi in salvo.

Le scosse di assestamento sono durate fino al giorno dopo, lasciando tutta la popolazione con il cuore in gola e senza alcun riparo. La casa è rimasta in piedi, ma tornare a viverci è impensabile. Era solo il primo degli intensi sismi che si sono succeduti nella zona nel corso dei giorni successivi, classificati tra i più distruttivi nella storia recente dell’Afghanistan, ed è anche quello che ha provocato una strage, riducendo in sabbia e macerie interi villaggi della provincia di Herat, dove gran parte di strutture e abitazioni non avrebbero mai potuto resistere a tale potenza.

I numeri

Secondo le informazioni diffuse dal governo talebano, oltre 2.400 persone sono morte a causa delle scosse, in gran parte donne e bambini, ma il numero definitivo potrebbe essere di gran lunga superiore. «È molto difficile sapere quanti morti e dispersi ci siano nei villaggi più lontani dalla città di Herat. In alcuni luoghi siamo andati a vedere ma non c’era più neanche una casa», racconta Yahya Kalilah, Capo dei programmi di Medici Senza Frontiere in Afghanistan.

Nelle ore successive al sisma, le strade erano disseminate di cadaveri coperti da teli, tappeti e coperte. A Seya Hab è stato organizzato un funerale di massa, per 300 persone tutte insieme. Gli operatori di Medici Senza Frontiere si sono attivati sul territorio sin dall’inizio, chiamati dall’ospedale di Herat per soccorrere i feriti gravi. «Abbiamo subito allestito quattro tende e l’ospedale ha accolto oltre 500 feriti, impostato i triage, portato dispositivi medici. Dopo la prima scossa sono arrivate in ospedale più di 500 persone, per la maggior parte donne e bambini». Al primo grande sisma ne sono seguiti altri, in zone diverse ma vicine e della stessa intensità, uno appena tre giorni dopo, un terzo il 15 ottobre. «Fortunatamente le persone si trovavano già fuori dalle case dal giorno della prima scossa, e noi eravamo già operativi», racconta il dottor Kalilah. In totale, secondo i dati delle Nazioni Unite, sono circa 43.400 le persone colpite direttamente dai terremoti, principalmente nei distretti di Injil e Zindajan, ma anche in quelli di Gulran, Herat e Kohsan. Oltre 3.330 case sono state completamente distrutte.

Gli sfollati

Il terrore si è fatto strada rapidamente tra le decine di migliaia di famiglie sfollate. «Sono settimane che viviamo fuori casa, ci stiamo ammalando, siamo quattro famiglie in una sola tenda», racconta Farzana, 20 anni. «Già a Herat la situazione non è buona, le persone dormono in strada, nelle loro auto, nei giardini. Di notte fa molto freddo», prosegue il dottor Kalilah. Ma è nei villaggi rurali che le condizioni si stanno facendo estreme. Non ci sono ripari, né servizi igienici. Portare aiuti nelle zone più remote è molto complicato.

Roqia e Hamida raccontano che nella loro zona alcune ambulanze hanno portato via le persone gravemente ferite, ma non sono ancora arrivati aiuti umanitari. Sono gli stessi abitanti a muoversi verso la città, dove c’è maggiore supporto, per poi fare ritorno a casa. Ogni villaggio si organizza diversamente, ma è complicato anche solo pensare di spostarsi verso il centro se non si ha a disposizione un posto dove stare. La distruzione è tale che serve una programmazione a medio e lungo termine. Nonostante la precaria situazione economica che il paese vive da ormai da anni.

«Nell’immediato c’è stata una grossa mobilitazione di aiuti nelle aree più centrali», prosegue Kalilah. «Ma bisogna capire come ci si muoverà in futuro. Bisogna considerare un programma di supporto psicologico per tutte le persone rimaste traumatizzate, ma anche un piano per l’acqua potabile, la garanzia di servizi per l’igiene e per le soluzioni abitative. Bisogna organizzarsi per capire come agire a medio e lungo termine, perché questa emergenza non durerà mesi, ma anni».

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