Yascha Mounk: Lei ha scritto uno dei libri più venduti sul cambiamento climatico. Perché il cambiamento climatico dovrebbe davvero preoccuparci secondo lei? 

David Wallace-Wells: Oggi che il clima ci sembra relativamente stabile, se non leggermente alterato agli estremi, il pianeta è già tra l’1,1C° e l’1,3C° più caldo della media preindustriale. E non sembra tanto. Ma ora siamo a un punto più caldo di quanto non lo siamo mai stati nella storia della civiltà umana. Questo significa che tutto ciò che ricordiamo, come specie, dall’invenzione dell’agricoltura fino allo sviluppo del moderno stato-nazione e della cultura moderna, è cresciuto in condizioni climatiche che non ci sono più. Già oggi ci troviamo in un nuovo regime climatico che sta cambiando ciò che possiamo aspettarci dalla produzione agricola per via di incendi, siccità, tempeste.

Probabilmente le temperature si alzeranno ulteriormente. Penso che lo scenario migliore sia stare un pelo sotto i due gradi, anche se ci sono ancora molti leader politici nel mondo che pensano che abbiamo una possibilità di mantenerlo a 1,5. E anche se la differenza tra questi due numeri in fondo sembra piccola, 1,5C° e 2C°, nella realtà è piuttosto grande quando si tratta della matematica della sofferenza umana. Dunque in quel mezzo grado di margine si parla di una previsione tra 100 e 50 milioni di persone in più che potrebbero morire per gli effetti dell’inquinamento atmosferico dovuto alla combustione dei combustibili fossili necessari per arrivare a 2C°.

Parliamo di ondate di calore in Asia meridionale e medio oriente così calde durante l’estate da risultare regolarmente letali. Certamente non sarebbe possibile lavorare all’aperto senza rischiare colpi di calore ed eventualmente morti per calore, pur tenendo conto di com’è fatta la persona e del tipo di biologia. La maggior parte degli studiosi del clima pensa che si parlerà di grandi migrazioni climatiche, secondo l’Onu nell’ordine di centinaia di milioni di persone. E per tutte queste ragioni il mondo verso cui stiamo andando, e che arriverà quasi inevitabilmente finché siamo ancora in vita, è davvero scombussolato e disordinato rispetto a quello in cui lei e io siamo cresciuti. Scardina le nostre aspettative per il futuro.

Ora, questo non significa che la razza umana si estinguerà, o che il pianeta morirà, o chissà cosa di apocalittico. Ma tutto ciò che conosciamo della vita moderna è risultato da condizioni climatiche sulle quali non possiamo più contare. E penso che stiamo già imparando quanto delle nostre vite, anche nelle parti del mondo ben sviluppate, prospere e “moderne”, saranno drammaticamente sconvolte da un ulteriore innalzamento delle temperature.

Y. M.: Ci aiuti a distinguere tra lo scenario più probabile da una parte e il rischio di scenari più catastrofici dall’altro. Ovviamente c’è motivo di preoccuparsi da entrambi. Ma è importante tenerli concettualmente distinti nella nostra mente. E l’altra distinzione è tra gli effetti negativi che il cambiamento climatico ha di per sé, da un lato, e se questi effetti renderanno o meno la vita peggiore in futuro, tutto sommato, il che non è necessariamente la stessa cosa, perché se continuiamo a progredire economicamente, e così via, può darsi che le conseguenze terribili dei cambiamenti climatici limitino il progresso ma non peggiorino, in realtà, la nostra vita nel complesso.

Per prima cosa, quale ritiene sia lo scenario più probabile a questo punto in termini climatici? So che questo dipende dalle scelte politiche ed è molto difficile da prevedere. Ma se ha fatto una previsione del punto a cui saremo tra cinquanta o cento anni, come pensa che saranno il clima e la vita sulla terra allora?

D. W. W.: La prima cosa da dire è che tutte queste proiezioni sono governate da diversi livelli di incertezza. C’è incertezza, come ha sottolineato, sulla risposta e sull’azione umane. E c’è incertezza anche su come il clima stesso risponderà, quali tipi di circuiti di risposta potrebbero esserci ed esattamente quanto velocemente scompariranno cose come il ghiaccio artico e antartico. Quindi queste proiezioni sono in una nuvola di profonda incertezza. In gran parte credo che tanti degli abitanti del pianeta oggi usino questa come scusa per non preoccuparsene troppo.

L’approccio alternativo invece, e cioè che dovremmo preoccuparcene di più, è più responsabile probabilmente. Ovviamente, in quanto essere umano, condivido anche l’altro impulso. Se dovessi tirare a indovinare, direi che in questo secolo siamo a un livello di riscaldamento compreso tra 2 e 2 gradi e mezzo Celsius, quest’ultimo forse nelle regioni più a nord. E questo fondamentalmente perché stiamo facendo progressi notevolmente rapidi nell’abbassare il prezzo dell’energia rinnovabile, cosa che la rende un buon affare praticamente ovunque nel mondo che sta investendo nel proprio futuro energetico. Non stiamo però facendo abbastanza, o non ci stiamo muovendo abbastanza velocemente, per ridurre il nostro uso di combustibili fossili. Quindi, al momento, stiamo integrando la nostra base energetica esistente con energie rinnovabili anziché sostituirle, che è ciò che dobbiamo davvero fare. 

Y. M.: Spesso si inquadra la battaglia per contrastare il cambiamento climatico principalmente intorno a sacrifici economici. E in parte è vero. Ma rispetto a quello che diceva in termini di calo dei prezzi delle energie rinnovabili, la verità è che in molti luoghi diventa economicamente razionale implementare le tecnologie migliori per il pianeta.

D. W. W.: Sì. Questo è effettivamente uno dei principali cambiamenti nella cultura del cambiamento climatico e dell’azione per il clima negli ultimi cinque o dieci anni. Il protocollo di Kyoto e il primo avvertimento di Al Gore sui cambiamenti climatici sono stati intrapresi in momenti in cui pensavamo che ci sarebbe stata una transizione gravosa, che avremmo dovuto intraprendere per il bene l’uno dell’altro e del pianeta e delle nostre vite in futuro, ma che sarebbe costata anche cara nel breve e medio termine. Questo calcolo è davvero cambiato, in parte perché i costi delle energie rinnovabili sono diminuiti drasticamente, e poi perché ci stiamo facendo un’idea più chiara degli effetti catastrofici sulla salute della combustione dei combustibili fossili. Quasi tutti i leader mondiali lo riconoscono. L’Agenzia internazionale per l’energia (Iea) sostiene che il 90 per cento del mondo vive ora in luoghi in cui le nuove energie rinnovabili costano meno della nuova energia da combustibili fossili. È un panorama politico molto, molto diverso da quello in cui operavamo anche durante i negoziati degli Accordi di Parigi del 2015.

Y. M.: Dove ci porterà tutto questo? Arriveremo davvero al punto in cui le nazioni che hanno molte riserve di carbone o di gas naturale diranno: “Le teniamo sotto terra perché non è economicamente ragionevole usarle”? O secondo lei avremo bisogno ancora di qualche rinuncia economica o di norme governative? 

D. W. W.: Ogni paese con le proprie risorse, i propri bisogni energetici, sta affrontando il dilemma in maniera diversa. A livello macro-prescrittivo, a mio avviso, tutti gli incentivi coincidono. L’energia rinnovabile è già più conveniente dell’energia sporca in diverse parti del mondo. In breve dappertutto sarà una scommessa migliore. I benefici per la salute pubblica derivanti da questa transizione sono enormi. E se affronteremo la transizione in modo molto aggressivo, ci permetteranno di evitare gli impatti più catastrofici dei cambiamenti climatici. E anche se la prendiamo svogliatamente, il ritmo del cambiamento tecnologico ci permetterà forse di evitare qualcuno degli scenari peggiori.

Per me, la ricetta è di fare questa transizione velocemente. È certamente possibile immaginare che i prezzi delle rinnovabili scendano così tanto che semplicemente non avrebbe senso continuare a sfruttare le risorse fossili. Non siamo assolutamente a quel punto. Ma nella maggior parte del mondo, come ho detto prima, è probabilmente più economico costruire nuove infrastrutture per le rinnovabili che per le fossili. È anche vero però che avendo oleodotti e pozzi petroliferi in funzione, si vorrà probabilmente anche continuare a usarli. Ora, quanto ancora scenderà il prezzo e quanto possiamo prevederlo in modo preciso e lineare è un fattore molto importante nella transizione energetica nel prossimo decennio circa, e credo che ci siano buone ragioni per pensare che continuerà a scendere. Un importante articolo è stato pubblicato a Oxford lo scorso autunno e diceva che se non ci fosse stata alcuna interferenza nel mercato da parte dei governi per conto delle entità dei combustibili fossili, da un certo punto in poi, il prezzo in calo delle sole energie rinnovabili sarebbe stato sufficiente a portare il mondo sotto i 2C° di riscaldamento. Quell’analisi non mi convince totalmente, ma è uno spostamento concettuale illuminante rispetto a dove eravamo in passato.

Ci sono poi i petrostati. Ci sono paesi le cui risorse sono legate strettamente ai combustibili fossili. E probabilmente ci sono tanti altri paesi la cui base imponibile è legata all’industria locale dei combustibili fossili. Si tratta davvero di questioni geopolitiche e di politica nazionale spinose. Non dico che la risposta sarà la stessa per tutti. Ma penso che stiamo raggiungendo un punto a livello globale in cui, valutando razionalmente l’orizzonte compreso tra i dieci e i trent’anni, quasi tutti sceglieranno di investire tutto il denaro che stanno riversando nell’estrazione di energia in risorse rinnovabili di un tipo o dell’altro, invece che continuare a investire ulteriormente nello sviluppo di nuove infrastrutture per i combustibili fossili.

Il calo dei prezzi delle energie rinnovabili è un fattore decisamente importante per rendere plausibile l’idea di un pianeta un po’ più fresco di quanto poteva sembrarlo cinque o dieci anni fa. Abbiamo anche avuto però un aumento dell’attivismo politico intorno al cambiamento climatico, che insieme alle forze di mercato ha davvero cambiato i calcoli dei nostri leader politici così come il modo di pensare di molte figure importanti del mondo aziendale, che erano focalizzate sulla transizione non solo per ragioni economiche, ma anche per soddisfare le esigenze sociali dei propri clienti. Vediamo tanti impegni e promesse nel mondo aziendale. E mentre io, personalmente, preferisco non doverlo considerare un progresso (è per lo più retorica vuota), è una differenza davvero marcata rispetto a dove eravamo qualche anno fa.

Y. M.: Prima diceva che lo scenario più probabile a questo punto è un innalzamento della temperatura tra i 2C° e i 2,5C° entro la fine del secolo. Se nel 2100 raggiungeremo i 2,25C° di riscaldamento – a metà della sua previsione – sappiamo con esattezza cosa significherà in termini di vite umane e di ambiente?

D. W. W.: Molte città dell’Asia meridionale e del medio oriente saranno così calde che il modo in cui le persone vivono oggi in quelle città – svolgendo tanti lavori all’aperto, lavoro agricolo, il commercio nelle strade e in edifici climatizzati – diventerà molto, molto più difficile. Questo non significa che l’intera popolazione di 14 milioni di persone di Calcutta moriranno in una giornata molto calda. Ma significa che si cominceranno a vedere numeri molto alti di malattie e decessi legati al caldo nelle fasce equatoriali del paese, un impatto molto più drammatico di quanto abbiamo mai visto prima.

Probabilmente questo impatto sarà più irregolare nelle latitudini settentrionali, come abbiamo assistito con la bolla di calore del Pacifico nella Columbia britannica e nello stato di Washington la scorsa estate. Probabilmente in questo secolo ci sarà una grande storia di rifugiati migratori. Come ho detto prima, l’Onu prevede qualcosa come duecento milioni di rifugiati per il clima entro il 2050; e hanno in realtà una stima in eccesso di 1 miliardo, che non ritengo plausibile. Ad ogni modo, la butto lì per segnalare quale potrebbe essere lo scenario peggiore. Un miliardo è la combinazione degli abitanti del nord e sud America oggi.

Y. M.: La previsione è difficile perché ci sono davvero tanti fattori diversi. Sono stato a Calcutta. Se il caldo diventasse più estremo, al livello attuale di sviluppo socioeconomico di Calcutta, sarebbe una catastrofe nei modi che descrive. Ma certamente una domanda è: come sarà Calcutta nel 2100? Si può immaginare che con l’attuale traiettoria di crescita dell’India il paese sarà molto, molto più ricco entro il 2100, Calcutta compresa. Ora, questo non vuol dire banalmente che non ci saranno giorni dell’anno in cui sarà a malapena possibile uscire per il troppo caldo. Non significa nemmeno che non ci sia qualcosa di cui preoccuparsi. Non significa che sia banale il modo in cui le persone possono essere colpite. Ma è difficile pensare a quanto sarà dirompente per la vita di Calcutta a quel punto, e prevedere quanti morti e feriti deriveranno da una cosa come un’ondata di caldo estremo. Come pensa a questo scenario e a quello più probabile, di come sarà il mondo nel 2100?

D. W. W.: In generale, per molte di queste proiezioni, come lei dice, l’adattamento umano, la resilienza e la crescita sono irrilevanti. Ed è un problema. Questi impatti climatici sono solo metà della storia e il modo in cui rispondiamo, cresciamo e ci sviluppiamo lungo il percorso è l’altra metà. Queste due metà si intersecano in modi molto importanti quando si parla di prosperità umana. Sono un po’ meno ottimista sul fatto che possiamo proiettare la recente crescita economica fino al 2100, specialmente in un luogo come l’India, se parliamo di impatti climatici davvero drammatici.

E questo ci porta a un grande tema, e cioè, che pur trattandosi di una minaccia universale – è globale e interessa ogni parte del pianeta – gli effetti non sono uguali, ma si concentrano nelle fasce equatoriali del pianeta, che sono anche, purtroppo, molte delle zone più povere del mondo. Molti buoni studi economici suggeriscono che – certamente nel caso del riscaldamento assoluto, che ci porterà a nord del punto di cui stiamo parlando qui, a 3C° o 4C° di riscaldamento – se seguiamo questa traiettoria, è plausibile dire che entro il 2100 enormi parti di mondo avranno perso almeno metà, forse più di metà, del loro potenziale di crescita economica. La loro produttività agricola sarà drasticamente diminuita, a causa dell’effetto del riscaldamento e della temperatura sulla cognizione e sulle prestazioni umane e di molti altri fattori, oltre ai quali dobbiamo considerare i disastri naturali che si verificheranno con maggiore frequenza.

Ora, non voglio prendere come vangelo un singolo studio o una singola ricerca e dire che con 3C° di innalzamento delle temperature entro il 2100 tutta l’Africa subsahariana non avrà alcuna crescita economica. Metto però in discussione questa premessa fondamentale di ciò che chiede, vale a dire che la crescita economica prosegue quasi parallelamente a questi impatti climatici. Conosciamo abbastanza della portata e delle proporzioni di questi impatti per sapere che, nel migliore dei casi, complicheranno le nostre traiettorie di crescita economica. E in alcuni casi, in alcuni luoghi, sarà probabilmente molto peggio di così.

Y. M.: C’è un doppio vincolo qui, no? Perché sono assolutamente d’accordo sul modo in cui il cambiamento climatico può rendere più difficile lo sviluppo economico di questi paesi. Allo stesso tempo, ci sono anche alcune cose che potremmo chiedere loro di fare per il clima che rendono più difficile lo sviluppo economico. E uno dei motivi principali per cui oggi la vita è molto dura in alcune parti dell’Africa subsahariana o dell’India è, ad esempio, una povertà di accesso all’elettricità e a tutte le comodità e gli effetti benefici sulla salute che ne derivano.

Come pensa che dovremmo organizzare la lotta ai cambiamenti climatici in modo tale da massimizzare le possibilità dei paesi del sud del mondo di svilupparsi economicamente il più rapidamente possibile, perché ciò li renderà effettivamente più resilienti agli effetti peggiori del cambiamento climatico?

D. W. W.: Torniamo a quello che dicevamo all’inizio, su come il calcolo economico è cambiato per chiunque investe nel nostro futuro energetico in qualunque parte del mondo. Cinque o dieci anni fa era molto difficile immaginare come il sud del globo avrebbe potuto contribuire a limitare il riscaldamento globale. Un numero di persone compreso tra circa 800 milioni e 1 miliardo non ha accesso regolare all’elettricità, e non possiamo chiedere a loro di continuare a non avere elettricità nel prossimo secolo. Non è moralmente accettabile. Ma dare a queste persone o aiutarle a ottenere l’accesso all’elettricità sembra oggi un affare molto, molto diverso da ciò che sembrava cinque o dieci anni fa, nel senso che potrebbe già essere la scelta migliore, più conveniente, e l’investimento più solido, da fare quasi tutto con le rinnovabili e, in una certa misura, con il nucleare. Vedremo come andrà a finire. La Cina sta spingendo molto sul nucleare e questo potrebbe cambiare il panorama di questa energia a livello globale nei prossimi due decenni. Stavamo per chiedere a diversi miliardi di persone più povere al mondo di assumersi un onere economico per prevenire un riscaldamento catastrofico. E ora siamo in una situazione in cui, a livello globale, si tratta davvero di accelerare una transizione economicamente inevitabile in base alle forze in atto oggi.

C’è un reale bisogno di sostegno da parte del nord del globo, delle istituzioni finanziarie, in termini di fabbisogno di capitale iniziale per costruire energia eolica, solare, ecc. Dovremmo prendere sul serio il fatto che il nord del globo non sta andando bene su quel fronte. Non ha ancora nemmeno mantenuto le promesse fatte con l’Accordo di Parigi. Ora i leader del sud del mondo chiedono sette, otto, dodici volte più di quanto hanno chiesto nel 2015. 

Ma non sarebbe un onere continuo imposto ai poveri del mondo, anzi, al contrario, soprattutto se si considerano gli effetti sulla salute. Il residente medio di Delhi ha visto la propria aspettativa di vita ridotta di nove anni a causa dell’inquinamento atmosferico. In tutta quell’area della pianura indo-gangetica, si parla di una media di sei o più anni di aspettativa di vita persi. A livello globale, si stima una perdita di circa dieci milioni di persone all’anno, che, solo nella mia vita, sono 400 milioni di vite. Ma le conseguenze non sono solo letali. Influiscono anche su vari aspetti della salute umana; ci sono conseguenze su malattie coronariche, malattie polmonari, sulle prestazioni cognitive e sono in relazione con l’Alzheimer e la demenza.

C’è anche un aspetto ottimista comunque, e cioè che probabilmente a livello globale, abbiamo superato il picco dell’inquinamento atmosferico, il che significa che per quanto orribili e catastrofici siano quei numeri, è probabile che diminuiranno nei prossimi decenni. Forse oggi assistiamo a più morti e sofferenze dovute all’inquinamento atmosferico di quanto non ne vedremo più nella nostra vita. Dunque c’è un modo in cui la storia dell’inquinamento atmosferico è rassicurante, quando pensiamo al cambiamento climatico, perché le cose stanno già migliorando.

Y. M.: Passiamo per un momento al lato più pessimista dell’argomento. Ciò che mi motiva quando penso al cambiamento climatico è lo scenario più probabile, ma ancora di più ciò che viene dopo, i possibili, anche se improbabili, effetti che corrispondono a un vero scenario horror. Ci conduca attraverso quegli scenari dell’orrore. Quanto li stima probabili al momento? 

D. W. W.: Lo scenario delle emissioni di fascia alta che è stato integrato alla letteratura scientifica dall’organismo Ipcc delle Nazioni unite si chiama Rcp 8.5. Per molto tempo è stato definito una traiettoria regolare. A mio avviso è un po’ fuorviante. È diventato ancora più fuorviante nel recente passato, da quando abbiamo avuto questa rivoluzione dei prezzi delle rinnovabili. Penso che ora sia giusto definirlo uno scenario negativo, che richiederebbe molta inerzia sul ritiro dei combustibili fossili, e probabilmente un aumento significativo del carbonio proveniente dai circuiti di risposta e un livello più alto di quella che viene chiamata “sensibilità climatica”, vale a dire, data una certa quantità di carbonio nell’atmosfera, il riscaldamento che ne deriva. Si è parlato molto però di come questo ora sembri molto meno probabile.

Potremmo raggiungere lo stesso livello di riscaldamento se avessimo cicli di risposta peggiori di quanto ci aspettassimo. Non è una probabilità scontabile. Ora, non lo metterei affatto nella nostra probabilità mediana del 50 per cento, ma se fosse pari al 10 per cento, sarebbe abbastanza significativo da farci preoccupare soprattutto degli impatti catastrofici. Ci sono stime che suggeriscono un triplicarsi delle guerre globali per effetto della temperatura sul conflitto. E ci sono studi su come ciò influisca sul conflitto anche a livello individuale, non solo a livello sociale.

Parliamo di rese agricole in calo del 50 per cento o più, ancora una volta, salvo adattamento e innovazione sul lato delle colture ogm o della strategia agricola. Si parlerà di luoghi del pianeta che potrebbero essere colpiti da sei disastri naturali causati dal clima contemporaneamente: uragani, incendi, siccità, basta scorrere la lista. Ciò potrebbe produrre, tutto sommato, qualcosa come 600 trilioni di dollari in danni climatici globali entro la fine del secolo, che è una ricchezza considerevolmente maggiore di quella che esiste oggi nel mondo. Presumibilmente allora saremo anche più ricchi. Ma comunque, si tratta di un impatto incredibilmente grande. Sembra che questi rischi siano adesso percepiti come reali e come fonte di preoccupazione, anche se non sono probabili.

Y. M.: L’immagine che mi viene da questa conversazione è che ci sono parti del mondo che sono già molto ricche, e ci sono parti che sono povere, che soffrono la mancanza di accesso all’elettricità a causa della povertà, e in realtà abbiamo una vera crisi sanitaria in questo momento a causa dell’inquinamento da polveri sottili e così via. Poi c’è questo pericolo del cambiamento climatico, che nello scenario più probabile è un pericolo molto significativo, meno probabilmente un pericolo catastrofico. Che tipo di politiche dovremmo adottare secondo lei per massimizzare il benessere umano nei prossimi decenni? Come affrontare questa serie di sfide diverse che stiamo affrontando in un modo il più possibile uguale per tutti? 

D. W. W.: È ​​difficile parlare in termini universali e ogni paese ha esigenze e dinamiche politiche diverse. Ma anche guardando i sussidi molto espliciti che stiamo distribuendo oggi al business dei combustibili fossili, in gran parte del mondo (il Fmi dice di utilizzare una definizione più ampia di sussidio, che include anche i danni non pagati, che è probabilmente un po’ fuorviante) dicono che stiamo pagando qualcosa come cinque o sei trilioni di dollari l’anno in sussidi al business dei combustibili fossili. Una stima più prudente dei sussidi diretti è ancora nell’ordine di centinaia di miliardi di dollari. E non c’è davvero alcuna giustificazione per questo. Per come la vedo io, penso che sia piuttosto velenoso, letteralmente e politicamente. Quello che vogliamo fare non è aspettare le tecnologie di prossima generazione, ma costruire nel modo più aggressivo possibile gli strumenti che abbiamo oggi, mentre investiamo un po’ nella ricerca e nello sviluppo in modo che tra trenta o quarant’anni, come noi stiamo risolvendo le ultime parti del problema, avremo a disposizione nuovi strumenti. Ma penso che non possiamo davvero aspettare che lo sviluppo abbia luogo. Perché ogni anno che rimandiamo, immettiamo più carbonio nell’atmosfera.

Un aspetto davvero tanto sottovalutato del cambiamento climatico è che il carbonio è cumulativo, rimane nell’atmosfera per secoli e forse millenni, il che significa che ogni grammo di carbonio che sia mai stato emesso nella storia dell’industrializzazione è ancora lassù. Un pezzo di carbone bruciato a Manchester nel Diciannovesimo secolo ha ancora effetti sul riscaldamento globale, alla pari di un pezzo di carbone bruciato oggi in Cina. Non siamo in grado di tirare giù quel carbonio in modo naturale in qualsiasi scala temporale. È ragionevole pianificare nel corso di milioni di anni. Potremmo essere in grado di accelerarlo con alcuni strumenti tecnologici rispetto ai quali sono relativamente ottimista, ma in generale, tutto ciò che facciamo oggi si aggiunge al totale del riscaldamento. Per questo il ritardo è davvero terribile.

Attualmente siamo sostanzialmente al picco delle emissioni. Le emissioni oggi sono più di quanto siano mai state in tutta la storia umana. Il che significa che stiamo solo peggiorando il problema di anno in anno. Si parla molto dei prossimi decenni in un modo molto più ottimista e penso che ci siano buone ragioni per farlo. Ma non si è ancora iniziato a flettere la curva verso il basso. Non dobbiamo solo ridurre le nostre emissioni, dobbiamo portarle completamente a zero per stabilizzare il clima del pianeta a qualsiasi livello di temperatura. Il compito davanti a noi è enorme. Ogni anno che ritardiamo, rendiamo la montagna più alta, il che significa che la discesa dovrà essere più acuta.

Y. M.: Ha parlato di eliminare gradualmente o abolire rapidamente, o immediatamente, i sussidi per le aziende di combustibili fossili. Sembra ovviamente giusto, se vogliamo passare a queste tecnologie energetiche più pulite nei prossimi dieci o quindici anni anziché nei prossimi venti o trenta. Che effetto avrebbe? Lo sta dicendo all’amministratore delegato di Shell e ai politici? Se sì, cosa possiamo fare per realizzare la transizione? O lo dice ai singoli ascoltatori di questo podcast? Dovrebbero cambiare la fornitura elettrica nelle loro case? Cosa significherebbe per noi collettivamente compiere questa transizione nei prossimi dieci anni, invece che nei prossimi trentacinque?

D. W. W.: È una questione che sarà risolta principalmente a livello politico nazionale. Alcune delle compagnie di combustibili fossili si stanno muovendo un po’ più velocemente di altre, ma nessuna si sta davvero muovendo alla velocità che la scienza del clima richiede. In ultima analisi, in una situazione di zero emissioni di carbonio, non dovremmo bruciare affatto combustibili fossili. A meno che quelle aziende non si trasformino interamente in aziende di energia pulita, non credo che lo faranno, dobbiamo davvero pensare di ritirarle sostanzialmente in un modo o nell’altro.

Come arrivarci è una questione su cui i diversi governi nazionali devono trovare una strategia. In generale comunque, penso debbano svolgere un ruolo nella costruzione delle infrastrutture che vada oltre le capacità delle singole aziende. Si parla di una rete molto più pulita, ad esempio, e di molte più stazioni di ricarica per le rinnovabili sulle autostrade, per rendere possibile una transizione rapida. Le economie politiche di tutto il mondo sono state essenzialmente catturate dalle imprese di combustibili fossili per un secolo. E in parte questo è stato produttivo e utile, e ci ha reso molto più ricchi e molto più felici, ecc. Ma dobbiamo rompere questo matrimonio e davvero usare le forze della spesa pubblica per accelerare la transizione che sta già avvenendo, come vediamo, ma non abbastanza rapidamente da evitare alcuni risultati piuttosto spaventosi.

Se guardiamo all’ultimo decennio o due, uno dei motivi principali per cui abbiamo prezzi rinnovabili così impressionanti è a causa della spesa inserita nel Recovery act dell’amministrazione Obama, di quella intrapresa in Germania nel decennio precedente, e per la spesa sostenuta per la ricerca e lo sviluppo in particolare in Cina nell’ultimo decennio. Non è un mistero. Metti i soldi nelle cose, il progresso tecnologico segue e i prezzi scendono, il che lo rende una proposta molto più attraente per i consumatori, in particolare, e per i governi che pianificano il loro futuro. È un gioco da ragazzi se lo si  pianifica alla lavagna. Il problema è che non viviamo su una lavagna. E anche le turbolenze a breve termine, che le transizioni si portano dietro, possono essere piuttosto scomode dal punto di vista politico, specialmente quando i governi operano su orizzonti temporali di due o quattro anni come spesso accade.

Y. M.: Per avviarci verso la conclusione di questo dialogo, vorrei riflettere un po’ su come comunicare queste cose e su come spesso vengono comunicate. Mi colpisce che lei sia una delle voci più influenti al riguardo. Ma l’impressione che ho avuto parlandone insieme è diversa dal consenso sui cambiamenti climatici che si trova sui giornali. Non credo ci sia alcuna distanza tra il consenso nella letteratura scientifica e il modo in cui lei ne parla, ma credo che ci sia una bella distanza tra ciò che si legge sul New York Magazine o il Guardian o il New York Times e le sfumature di questa conversazione. Spesso, il dibattito pubblico suona come: “Il mondo finirà tra dieci o quindici anni e stiamo andando alla rovina. E sostanzialmente dobbiamo cambiare tutto radicalmente per affrontare il cambiamento climatico: dobbiamo abolire il capitalismo, essere molto più poveri e fare sacrifici molto significativi a livello individuale e collettivo”. 

Ricordo uno studio che mostrava una scoperta molto preoccupante secondo cui entro il 2100 una percentuale significativa del territorio della città di New York potrebbe essere colpita da inondazioni o trovarsi sott’acqua. Se ricordo bene, però, si trattava di circa il 7 per cento del territorio di New York City. È un cosa terribile e di cui essere molto preoccupati, eppure, nel diventare notizia di copertina di una rivista si era arrivati ad avere un’immagine di Manhattan con l’Empire State Building sott’acqua per dieci piani.

Ora, questo non è affatto ciò che lo studio mostrava. Chi l’ascolta oggi avrà un’impressione molto diversa da ciò che sta succedendo nel mondo rispetto a quella che potrebbero avere nel leggere appena il titolo del suo libro, The uninhabitable earth, “La terra inabitabile”. Suona tutto molto diverso da come ha descritto la situazione negli ultimi quindici minuti. Cosa pensa dell’importanza e dell’utilità di questo tipo di cornice catastrofista, e cosa spiega la sua importanza nel discorso?

D. W. W.: Per ogni tipo di questione politica c’è un ampio spettro di prospettive. Il valore di una prospettiva estrema non è necessariamente la sua applicabilità. Ci sono diversi tipi di retorica politica che sono utili e potenti e che possono essere complementari, anche se in qualche modo divergenti.

Per cinque anni ci sono stati Greta, gli Extinction Rebellion, Sunrise e i manifestanti per il clima. Di conseguenza la retorica globale sul cambiamento climatico è davvero cambiata. È per questo che ogni amministratore delegato di ogni azienda compresa nella lista di Fortune 500 parla di responsabilità climatica, anche se non si sta ancora muovendo abbastanza velocemente. Quindi penso abbia giocato un ruolo molto importante e utile, e di conseguenza abbia letteralmente cambiato il probabile futuro del pianeta, perché molte più persone stanno prendendo più seriamente il cambiamento climatico di quanto non facessero cinque o sei anni fa.

Di che tipo di retorica abbiamo bisogno ora è invece una domanda separata. Dato il panorama e la dinamica in continuo cambiamento, e dal mio punto di vista personale di allarmista in passato, penso che ci troviamo a un punto un po’ diverso oggi, con esigenze retoriche diverse rispetto a quelle del passato, di cinque o sei anni fa, anche perché almeno a livello retorico c’è stato questo grande risveglio. E anche se molti leader di tutti i settori non sono all’altezza di ciò che la scienza dice sia necessario per evitare quello che abbiamo a lungo inteso come un riscaldamento davvero drammatico, forse catastrofico, è vero anche che in qualsiasi parte del mondo quasi non esistono negazionisti del cambiamento climatico in posizione di potere (Jair Bolsonaro a parte).

È un cambiamento importante. I paesi stanno ora facendo i loro piani energetici su scale temporali decennali. Sono concentrati sull’obiettivo zero. Questo è uno dei motivi per cui alcuni di questi gruppi e figure estremiste hanno perso parte della loro rilevanza negli ultimi due anni. Greta è ancora una figura importante, gli attivisti per il clima scendono ancora in piazza. Ma Extinction rebellion è l’involucro esterno di ciò che era prima, Sunrise negli Stati Uniti è molto meno influente di quanto non fosse nel 2018 e 2019. Questo riflette una sorta di saggezza strategica collettiva, ovvero che oggi il lavoro principale non è tanto quello di far capire alle persone che il mondo sta cambiando in modi drammatici che minacceranno i loro mezzi di sussistenza e il sostentamento dei loro figli se non agiamo, ma è più sull’assicurarci che la transizione in corso si muova più velocemente e con il minor numero possibile di interruzioni. Di conseguenza, dal punto di vista retorico siamo a un punto diverso da dove eravamo alcuni anni fa.

Metto però in discussione alcune delle premesse alla sua domanda, che è forse la differenza tra noi e la nostra posizione retorica o intellettuale su questo insieme di questioni. Quando leggo il New York Times io non ci vedo allarmismo. Non penso che il giornalismo sia fuorviante o irresponsabile allo stesso modo in cui potrei descrivere alcune affermazioni di XR come fuorvianti o irresponsabili. Gli scienziati hanno detto in modo abbastanza inequivocabile che abbiamo già perso l’opportunità di evitare gravi e significativi danni causati dai cambiamenti climatici. Siamo a un punto in cui si pensa a strategie per ridurre al minimo queste perdite e questi impatti più che evitarli. Fare questo richiederà una transizione molto più rapida di quanto la maggior parte delle nostre politiche e gran parte della nostra politica abbia mai veramente tollerato in passato.

Sulla questione specifica del titolo del mio libro, penso che rientri nella tradizione di Silent spring e The end of nature, nessuno dei quali si intendeva preso alla lettera. I titoli sono spesso iperbolici e i lettori intelligenti lo capiscono. Ma è vero che, dato il riscaldamento assoluto, vaste parti del mondo assomiglieranno molto di più al Sahel che, ad esempio, all’Austria. Si tratta di un cambiamento davvero significativo di cui penso dovremmo preoccuparcene tutti.

Viviamo ancorati al presente e le nostre aspettative per il futuro si fondano su queste impressioni, il che significa che è facile guardare oltre alcuni avvertimenti di cambiamento e trattarli come considerevolmente più marginali di quanto non siano in realtà, perché siamo troppo abituati alla vita in cui viviamo nel mondo in cui viviamo. E può darsi che a 2C° o 2,5C°, pur con tutti gli impatti che sappiamo accadranno, ci saranno lo stesso persone che in alcune parti del mondo si guarderanno intorno e si chiederanno: “A proposito di cosa ci stanno mettendo in guardia gli scienziati? È tutto ok”. Ma questo succederà perché abbiamo normalizzato il triplicarsi degli incendi in California, o il drammatico aumento del livello dei giorni di calore letale in tutta l’India.

Possiamo scegliere un effetto del clima a piacere. La nostra capacità di normalizzare questa sofferenza, a mio avviso, non è davvero un argomento contro il prendere sul serio la minaccia che si evolva. Prima ha citato brevemente la pandemia. È illustrativo, parlando di scelte giornalistiche, che il New York Times abbia fatto una titolazione enorme in prima pagina quando 100mila americani sono morti di Covid. Ha elencato i nomi dei morti e dietro c’è stata una scelta giornalistica importante. Ora abbiamo raggiunto dieci volte quel numero in gran parte del paese, abbiamo iniziato a considerarlo un rumore di sottofondo.

Ora non voglio dire che la prima scelta fosse puramente morale, virtuosa e corretta, e che l’insieme delle scelte fatte ora sia totalmente immorale. Ma ci mostra come ci rapportiamo in modo diverso a diversi tipi di minacce, e quanto possiamo scegliere di enfatizzare o sminuire ciò che sappiamo sarà causa di sofferenza umana. Il pianeta è grande e ci abitano molte persone. Tra un secolo sarà ancora così. Ma ciò non significa che la sofferenza delle persone che saranno colpite sia irrilevante. E penso che dovremmo cercare di concentrarci il più possibile su ciò che possiamo fare per alleviare quella sofferenza. Per molto tempo questo ha significato dare l’allarme sul cambiamento climatico e sul riscaldamento globale. Continuo a pensare che il mondo non l’abbia recepito abbastanza.

C’è una battuta famosa sulla scienza del clima che dice che i due risultati più improbabili sono che “il mondo finirà” o che “andrà tutto bene”. Siamo nel mezzo, nella melma, nella merda. E se serve concentrarsi davvero sulla sofferenza futura per girare un po’ la rotella da 2,5C° a 2,2C°, penso sicuramente che la scienza lo giustifichi. Ma penso anche che sia retoricamente utile scrollarci di dosso il nostro compiacimento intuitivo e farci capire quanto di ciò che abbiamo dato per scontato nel recente passato sia quantomeno incerto, e potrebbe andare peggio in futuro.


Questo articolo è apparso sulla testata online Persuasion. Traduzione di Monica Fava.

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