Le tre transizioni strutturali e globali – ecologico-ambientale, digitale e demografica – in progressivo consolidamento, stanno comportando e comporteranno effetti costitutivi di un nuovo modello di sviluppo con riflessi fondamentali nel cambiamento del mondo del lavoro e della produzione, dei rapporti sociali e delle relazioni tra cittadini e istituzioni.

Sono in atto radicali sostituzioni delle organizzazioni del lavoro tradizionali con una conseguente esigenza di riconversioni produttive e professionali; nel contempo il mercato del lavoro pur presentandosi in continua evoluzione, non è ancora in grado di cogliere al meglio le istanze dell’innovazione e delle richieste effettive di professionalità a vari livelli di competenza. Questo è un aspetto spesso trascurato nel dibattito mentre è centrale per la tenuta sociale.

Tutto ciò in un contesto sempre più interconnesso e condizionato di recente da ulteriori fattori di instabilità, come l’avvento della pandemia e l’aggressione della Russia nei confronti dell’Ucraina, che hanno messo in crisi anche un’idea di globalizzazione dei diritti e delle opportunità per tutti, convergendo verso perimetri di influenza ed egemonie regionali con sistemi di potere spesso in contraddizione con la democrazia.

Gli obiettivi della transizione

Entrando nel merito di una delle tre trasformazioni strutturali indicate in apertura, quella ecologico-ambientale, l’accelerazione imposta dagli effetti del cambiamento climatico, le autorevoli posizioni espresse sul tema come la lettera enciclica Laudato sii e l’Agenda Onu 2030, i risultati dei vertici internazionali, a partire dalla Cop21 di Parigi del 2015, hanno sollecitato programmi internazionali e nazionali indirizzati alla neutralità carbonica e al progressivo passaggio dalle produzioni lineari a quelle circolari, con la conseguente sostituzione delle fonti di energia fossile, principali vettori di emissioni di CO2, con energie rinnovabili.

Obiettivi fondamentali e certamente non più rinviabili, ma che dovranno essere raggiunti con la gradualità necessaria per evitare il rischio di ricadute, difficilmente contenibili dai sistemi sociali e produttivi dei singoli paesi, complessità emerse anche nel recente vertice Cop26 di Glasgow.

Le previsioni delle istituzioni internazionali hanno sempre indicato il 2050 come data di completamento dei programmi individuati per il conseguimento dei risultati citati (oltre i documenti già segnalati dobbiamo evidenziare il Green new deal dell’Unione europea con le successive decisioni contenute nel programma Fit for 55). Ci sono tuttavia questioni basilari di tipo infrastrutturale e tecnologico da affrontare per supportare lo sviluppo delle fonti di energia rinnovabile: dotare i territori di reti di trasmissione e distribuzione per completare i fondamentali processi di elettrificazione, garantire sistemi di accumulo dell’energia in grado di supplire alla non programmabilità e alla discontinuità degli approvvigionamenti da queste fonti; programmare un accesso condiviso alle materie prime fondamentali per il successo in queste nuove sfide come le terre rare, il nichel, il cobalto, ecc.

Il quadro italiano

L’Italia arriva a questo appuntamento con una serie di condizionamenti derivanti sia da motivi oggettivi, come la carenza di risorse fossili nazionali e il blocco della generazione di energia elettrica da fissione nucleare (determinatosi con l’approvazione di quesiti referendari di contrarietà nel 1987 e nel 2011), sia da scelte prive di una visione programmatica in grado di garantire un passaggio progressivo e non traumatico all’utilizzo delle fonti di energia rinnovabile senza una visione programmatica chiara e spesso caratterizzata da posizioni strumentali, che hanno condizionato la stabilità e la prospettiva del comparto energia.

La scarsa autonomia è sempre stata uno dei principali vincoli della politica energetica italiana, in compenso a partire dal dopoguerra il paese, trainato dalla carismatica figura di Enrico Mattei, ha assunto un ruolo baricentrico nelle strategie internazionali, divenendo protagonista nei confronti dei paesi produttori di petrolio e gas naturale, sviluppando una rete di relazioni, che ancora oggi risulta essere determinante per il futuro dell’economia italiana.

Attraverso le professionalità espresse dal gruppo Eni, da aziende come Saipem e Snam e successivamente all’avvio delle riforme del settore elettrico, anche dal gruppo Enel, la presenza italiana nel mondo dell’energia è cresciuta e si è consolidata. Se da un lato scontiamo le difficoltà dei decisori politici, dall’altro siamo nella condizione di dialogare trasversalmente con paesi diversi, riuscendo così a contenere gli effetti critici del sistema e, in quest’ultimo spazio temporale, le ricadute della guerra russo-ucraina nel settore.

Ci troviamo pertanto di fronte a un periodo determinante per il futuro del sistema paese; i provvedimenti approvati in materia energetica negli ultimi dieci anni hanno scontato una serie di decisioni contraddittorie, aggravate dall’instabilità politica, che non ha messo in condizione il paese di affrontare con continuità e determinazione le questioni energetica e ambientale. Le strategie energetiche nazionali del 2013 e del 2017, in applicazione della Strategia Ue, hanno messo al centro della transizione l’utilizzo prevalente del gas naturale, vettore fossile ma con un tasso di emissioni carboniche decisamente inferiore rispetto al petrolio e al carbone. Scelta condivisibile e razionale, soprattutto perché in funzione di quella necessaria gradualità precedentemente indicata, che servirà ad adeguare le infrastrutture, le professionalità e le tecnologie unitamente all’incremento dell’efficienza dei sistemi energetici per un utilizzo intelligente degli impianti con effetti positivi sui consumi domestici, industriali e commerciali.

Successivamente i vari Pniec non sono mai stati definiti chiaramente in linea con gli obiettivi europei e adesso tra misure del Green deal europeo e le numerose proposte di Fit for 55, c’è bisogno di un’ulteriore forte spinta all’innovazione delle scelte energetiche.

Importazione e produzione nazionale

Nella condizione attuale, l’Italia ha un’importazione media di gas dalla Russia di circa il 40 per cento del totale; altre fonti di approvvigionamento sono l’Algeria, la Norvegia, l’Azerbaijan (approdato recentemente sul nostro suolo con l’avvio del gasdotto Tap), la Libia e il gas liquefatto proveniente prevalentemente dagli Usa e dal Qatar e immesso in rete tramite i tre rigassificatori di Porto Viro, Panigaglia e Livorno. Nel contempo la produzione nazionale si è ridotta dai circa 16 mld di m3 di fine anni Novanta ai 3.6 mld del 2021.

Le polemiche sull’ingresso del Tap, la sospensione delle esplorazioni offshore (alto Adriatico e canale di Sicilia), il sostanziale blocco dei lavori per l’approdo del gasdotto Poseidon, fondamentale per l’ingresso in Italia ed Europa del gas estratto dai giacimenti del Mediterraneo orientale (Egitto, Israele, Cipro) e la mancata realizzazione dei punti di consegna e della rete di gasdotti interni in Sardegna, hanno impedito di rafforzare l’Italia come hub sud-mediterraneo del metano e hanno ancora più condizionato i nostri destini energetici dalle importazioni provenienti dalla Federazione russa.

L’Italia, nella condizione odierna, potrebbe però riaffermare il suo posizionamento strategico nel trasporto del gas naturale; le decisioni derivanti dai riflessi della guerra, hanno portato il governo tedesco a interrompere la costruzione del North stream 2, l’infrastruttura che avrebbe definitivamente consolidato il flusso del metano russo e il polo di ingresso in Ue da nord; c’è pertanto spazio per mettere in condizioni la stessa commissione europea di considerare quella mediterranea la via prioritaria all’accesso del gas in Europa.

Verso un nuovo modello

Gli investimenti sulle infrastrutture per trasporto del gas sono importanti, perché, con gli opportuni adeguamenti tecnici, potranno avere una funzione decisiva anche nella prospettiva di utilizzo dell’idrogeno verde (ottenuto da fonti rinnovabili), vettore energetico innovativo e privo di emissioni carboniche, o del biometano. Con questi presupposti il dialogo sociale e le relazioni industriali potranno concorrere con determinazione alla gestione di una “giusta transizione” energetica e ambientale, quale elemento essenziale e qualificante per il sistema paese nella trasformazione dell’economia nazionale verso un nuovo modello di sviluppo.

Nuovi modelli educativi e di istruzione, un rinnovato impegno del primo e del secondo welfare per salvaguardare i livelli occupazionali e favorire le riconversioni verso nuove professionalità saranno le sfide immediate che dovranno accompagnare i processi di cambiamento. L’implementazione delle politiche attive del lavoro non può essere ulteriormente rinviata, va definito un rapporto collaborativo e di integrazione tra agenzie del lavoro privato e sistema pubblico. L’unico obiettivo deve essere quello di dare un servizio alle lavoratrici e ai lavoratori, nonché a tutte le persone, a cominciare dai giovani, accompagnandoli in tutta la vita lavorativa e nella transizione da un lavoro all’altro, con orientamento e proposte di formazione e lavoro. 

Ancora intere comunità vivono su un assetto economico e produttivo fondato sulla lavorazione di prodotti fossili. Le risorse messe a disposizione dal Next generation Ue e coniugate attraverso la missione 2 del Pnrr dovranno contribuire a tenere in equilibrio sociale la via verso nuove produzioni energetiche e manifatturiere. Esempi virtuosi ci sono stati, come la riconversione in bioraffinerie degli impianti tradizionali di Gela e Porto Marghera, lo sviluppo della produzione delle bioplastiche, di acciaierie di nuova generazione e altre esperienze di fabbricazioni “green”.

Ci aspettano anni di intenso confronto istituzionale nei quali tutti i soggetti dovranno mostrarsi all’altezza. Ne va del futuro di intere generazioni.

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