Nell’antica Repubblica romana, nelle assemblee popolari si smetteva di contare le mani alzate quando si raggiungeva la maggioranza.

Erano forme plebiscitarie, non democratiche: servivano a celebrare la vittoria. Il resto dei voti era inutile; contarli non aveva senso.

La differenza tra repubblica e democrazia (quelle antiche certamente) si misura anche da come si contavano i voti: se individualmente oppure no. Romano certamente era il clima che si respirava nello gelido Iowa ieri sera.

I caucus del Partito repubblicano hanno chiuso i battenti delle sezioni alle 20 ore locali, per dare inizio alle assemblee con le dichiarazioni di voto dei candidati o loro rappresentanti e poi il voto (segreto, in questo stato). Nemmeno mezz'ora dopo, tre seggi hanno dichiarato il vincitore, prima di concludere le operazioni di voto negli altri caucus.

E tutto lo Iowa ha dichiarato in pochi minuti la vittoria di Donald Trump, lasciando gli altri caucus nell’indifferenza generale. I loro voti sarebbero serviti a mostrare la valanga Trump e la sua distanza dai due contendenti (il quarto si era già ritirato).

Il governatore della Florida, Ron DeSantis, arrivato secondo, ha avuto parole durissime contro questo schiaffo alla democrazia: Trump, ha detto, è una minaccia per il partito e il paese. Lo ha detto troppo tardi.

L'ex governatrice della South Carolina, Nikki Haley ha sfoderato una gentilezza ammirevole. Troppo debole. Insomma, come ha dichiarato Newt Gingrich, «Trump non è un candidato, è il leader di un movimento nazionale». Un movimento autoritario che attraversa tutti i ceti della federazione come una reazione popolare contro la democrazia dei partiti.

«Molte delle persone che sostengono Donald Trump sono davvero stufe della democrazia, della democrazia rappresentativa, e pensano che un governo di tipo autoritario sarebbe probabilmente preferibile a questo punto, al fine di salvare la nazione o altro», ha detto l'ex rappresentante Charles Bass, un repubblicano del New Hampshire che ha già votato per Trump, ma ha detto che non lo farà di nuovo.

«Non credo che si sentano minacciati dall'avere qualcuno che ha almeno i tratti di essere più autoritario dei presidenti passati». Trump raccoglie consensi per fede, non sulla fiducia. È amato, qualunque cosa dica e faccia.

Un fenomeno che ben si adatta ad una repubblica plebiscitaria, meno ad una democrazia elettorale. Al leader carismatico non si chiede conto di nulla, lo si segue e lo si difende: e questo con le elezioni non c’entra nulla. La lotta politica non è più tale; è invece come un calvario alla fine del quale ci sarà morte e risurrezione.

Così i repubblicani evangelici vedono Trump, una vittima “martoriata” dai giudici e glorificato dal suo popolo. Il New York Times riporta le parole di una votante: «So che è stato scelto da Dio per questa ora; può aver sbagliato, ma chi non sbaglia?. Ci sono cose che ha fatto in passato, ma tutti abbiamo un passato». Umano più che umano.

Trump rappresenta l’agonia del sistema democratico come lo conosciamo, pluralista e tenuto in vita dal dissenso. A lui i repubblicani si rivolgono per chiudere il libro e ridare orgoglio alla nazione contro l’invasione dei migranti.

Trump ha messo sulla graticola New York che, democratica e solidale, ha accolto e sta aiutando i migranti che gli stati trumpisti del Sud gli mandano. Dopo la fase populista del primo Trump, ecco la fase autoritaria del secondo. L’America di oggi sembra un libro di testo: dalla democrazia dei partiti, alla democrazia populista, all’esecutivo autoritario.

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