Trump, la diplomazia come spettacolo: «Sarà una pace eterna e “americana”»

Donald Trump si è immodestamente incluso fra gli «operatori di pace» che Gesù benedice nel Discorso della Montagna, ma per una volta l’iperbole evangelica ha una sua giustificazione plausibile. Con un post su Truth il presidente americano ha annunciato il passaggio più difficile, quello da zero a uno, nel percorso verso la pace. La prima fase del piano è stata approvata da Israele e Hamas, e, pur fra mille cautele e circospezioni, Trump ha incassato il plauso dei leader di tutto il mondo per un lavoro di mediazione che ha funzionato, contro ogni speranza. I gazawi tornano a vedere il futuro. «Guardiamo verso il cielo, i droni non ci sono più» Il coro plaudente «Desidero esprimere una gratitudine infinita al presidente Trump che ha reso possibile un accordo che ci avvicina alla fine della guerra e crea speranza per un cambiamento nella realtà del Medio Oriente», ha scritto il presidente d’Israele, Isaac Herzog, unendosi al coro di chi gli vuole conferire il Nobel per la pace, ossessione trumpiana. Benjamin Netanyahu ha invitato Trump in Israele, e il presidente non si lascia certo sfuggire l’occasione di un viaggio trionfale nel quale sarà accolto come uomo della pace e negoziatore senza pari, il solo in grado di addomesticare con la forza della propria volontà il caos mediorientale. Domenica incontrerà il primo ministro a Gerusalemme e poi parlerà alla Knesset. Secondo la roadmap della Casa Bianca, il giorno successivo dovrebbe avvenire il rilascio degli ostaggi israeliani. Trump ha potuto annunciare l’accordo come una vittoria personale, ottenuta grazie al suo apparato di fedelissimi inviati: innanzitutto il vecchio amico Steve Witkoff, che da mesi lavora con gli alleati del mondo arabo per aumentare la pressione su Hamas e costringerlo a negoziare; poi c’è stato il contributo prezioso del genero, Jared Kushner, architetto degli Accordi di Abramo che è rientrato sulla scena pubblica per aiutare il negoziato. Mentre il governo israeliano si riuniva per approvare formalmente l’accordo, i due sono atterrati a Tel Aviv. Gli ostaggi ancora nelle mani di Hamas. Con la tregua si attende il loro rilascio Nella visione trumpiana, questo risultato non è solo una tregua, ma la conferma di un destino: il ritorno dell’America come unico mediatore delle principali controversie globali. «Tutte le parti saranno trattate in modo equo», ha scritto, un modo per dire che anche Hamas è in qualche modo riconosciuto come interlocutore legittimo. Nella grammatica trumpiana significa che lui ha parlato con tutti, perché tutti vogliono parlare con lui. Il tono trionfale è tipico: Trump trasforma la diplomazia in spettacolo, riduce il processo a un gesto simbolico e lo inserisce nella trama della sua epopea personale. L’idea di pace diventa un’estensione del suo brand, con tutti gli aggettivi del caso: «Forte», «duratura», «eterna», e soprattutto «americana». Anche nel suo momento di massima gloria internazionale, Trump non può uscire dal personaggio che ha creato. Ogni successo è un’occasione di autocelebrazione, ogni evento una dimostrazione del proprio genio infallibile. L’inflessione religiosa non è casuale, ma è parte della mitologia trumpiana ed è anche un richiamo al fedele elettorato evangelico, che vede nella difesa d’Israele una missione biblica. Nel raccontare la pace, Trump parla ai suoi fedeli più che ai partner internazionali. Storia di Nezek, l’eroe schivo. «Ma ora non devasterei Gaza» Strategia ambiziosa La prima fase del piano sembra funzionare. Dopo l’approvazione del governo, Israele ritirerà rapidamente le truppe dalle aree centrali della Striscia. I mediatori del Qatar e dell’Egitto rivendicano un ruolo decisivo, ma nessuno può negare che il presidente americano abbia riportato gli Stati Uniti in una posizione di centralità diplomatica. È un risultato che anche i critici di Trump non possono ignorare. Il piano di pace su Gaza è il tassello di una strategia più ampia e ambiziosa: restituire agli Stati Uniti il monopolio del compromesso in Medio Oriente. Dopo anni di marginalità, l’America trumpiana si propone come l’arbitro che impone la pace dall’alto, anche a costo di ridurre la complessità del conflitto. Il mondo, per Trump, è un tavolo delle trattative dove intuito e spavalderia contano più dei dettagli. È lo stesso approccio che aveva portato agli Accordi di Abramo, e che ora riemerge in una versione ancora più spettacolare. La vendetta biblica su Gaza: Israele ha creato un deserto Resta da vedere se e quanto durerà questa fragile tregua, e soprattutto come si svilupperanno le fasi successive. Ma per ora Trump può rivendicare un successo che nessuno dei suoi predecessori era riuscito a ottenere. Nel suo racconto, la pace non è il frutto di un processo, ma un atto di volontà. Ed è proprio in questa fede nella forza personale che si misura il potere del nuovo ordine americano.