Alle 18 di lunedì 20 gennaio Donald Trump si è insediato come 47esimo presidente degli Stati Uniti. Dopo la liturgia civile del giuramento Trump ha coronato quello che ha chiamato il “liberation day” con un discorso ipertrumpiano nel quale ha delineato il suo compito nazionale, globale e perfino interplanetario, dato che intende «piantare la bandiera a stelle e strisce su Marte», per la gioia del plaudente Elon Musk.

Trump ha annunciato che «l’età dell’oro dell’America inizia ora», e ha detto di avere ricevuto «il mandato di rovesciare completamente un orribile tradimento» che si è consumato.

Il suo compito, ha spiegato nel discorso di 29 minuti, è «restituire alla gente la loro fede, la loro ricchezza, la loro democrazia e la libertà». Ha fatto eco alla famosa espressione della «carneficina americana» della precedente inaugurazione dicendo che «il declino americano è finito». C’è stato anche un momento autocelebrativo che ha assunto toni messianici, quando ha fatto riferimento all’attentato di Butler: «Sono stato salvato da Dio per fare l’America di nuovo grande».

Ad assistere alla cerimonia c’era tutto l’establishment della capitale, con eccezioni notevoli come Michelle Obama e Nancy Pelosi, e una bizzarra selezione di capi di stato e dignitari stranieri nella quale un posto d’onore è ricaduto su Giorgia Meloni, unica leader dell’Ue arrivata a Washington. Viktor Orbán, il quasi-autocrate più amato nell’universo trumpiano, non è nemmeno stato invitato.

A completare il quadro della stranezza c’era il vicepresidente cinese Han Zheng, inviato da Xi Jinping dopo l’invito di un presidente in cui convivono un rapace istinto anticinese e l’impolitico desiderio di fare affari e stringere accordi con chiunque.

Potere esecutivo

Non è stata soltanto una giornata di parole, ma anche di opere. Il presidente appena insediato ha subito fatto roteare la mazza ferrata del potere esecutivo per darla in faccia ai suoi nemici. Nel discorso ha fatto una carrellata dei circa cento ordini esecutivi che ha firmato nel pomeriggio per iniziare subito l’opera di smantellamento di tutto quello che ha fatto l’amministrazione di Joe Biden negli ultimi quattro anni.

Fra questi c’è la decisione di togliere ai funzionari della pubblica amministrazione la protezione che spetta ai dipendenti federali, in modo da renderli più controllabili (e licenziabili) dal potere esecutivo.

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Sull’immigrazione gli ordini di Trump designano lo stato di emergenza sul confine, permetteranno di usare risorse militari per la sicurezza, aggirando il Congresso, limiteranno le richieste d’asilo e dichiareranno i cartelli del narcotraffico organizzazioni terroristiche straniere, così da poterle aggredire con più mezzi. Ci sono anche le amnistie per alcuni degli assaltatori di Capitol Hill, l’istituzione sfregiata con il consenso di Trump per impedire la certificazione delle elezioni che ieri era il teatro del suo nuovo trionfo.

Nella selva dei provvedimenti ce n’è anche uno che elimina tutte le qualificazioni di genere sugli atti pubblici che non corrispondono al sesso biologico, impedisce di identificarsi in modo diverso per tutto ciò che riguarda la vita pubblica – dal sistema penale allo sport – ed elimina di fatto il florilegio di pronomi che era stato introdotto proprio da Biden con un ordine esecutivo emesso il primo giorno del suo mandato.

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Nel frattempo, decine di funzionari del dipartimento di Stato hanno presentato le dimissioni, su indicazione dei consiglieri di Trump. Disporre un ricambio nella macchina diplomatica è una prerogativa del presidente, ma generalmente le nuove amministrazioni hanno cura di preservare una certa continuità istituzionale. Non questa volta.

Per contrastare questa devastante esibizione di forza, l’uscente Biden ha diramato ieri mattina un ordine esecutivo per concedere preventivamente la grazia a una serie di ex funzionari e politici a cui Trump ha promesso vendette legali e persecuzioni politiche per i tradimenti di cui li accusa.

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Fra questi ci sono l’ex capo delle forze armate, Mark Milley, il volto pubblico della lotta al Covid, Anthony Fauci, e la ex deputata Liz Cheney, figlia dell’ex vicepresidente di George W. Bush, che ha avversato Trump in tutti i modi fino a lasciare il partito repubblicano per fare campagna per Kamala Harris. A tutti Trump ha promesso vendetta.

All’ultimo minuto ha anche dato la grazia a cinque membri della sua famiglia, vittime di persecuzioni «fatte soltanto per attaccare me» e che «non ho motivo di pensare che finiranno».

Il caso TikTok

Un ordine esecutivo, anche questo annunciato, riguarda il destino di TikTok, oscurato negli Stati Uniti per qualche ora domenica perché lo dice la legge e riapparso perché lo ha detto Trump.

Qui il presidente ha preso tempo rimandando una decisione sul destino della piattaforma, ma fra minacce alla sicurezza nazionale, malumori fra i repubblicani al Congresso e competizione con Pechino, la faccenda si sta complicando. Diversi senatori repubblicani, fra cui Ted Cruz e Tom Cotton, hanno criticato la decisione di permettere alle compagnie che distribuiscono la app di continuare a farlo senza timori, a dispetto di una legge votata a una schiacciante maggioranza, ma cosa il presidente intenda fare per risolvere la disputa non è chiaro.

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Nel suo comizio a briglia sciolta prima dell’insediamento ha detto per la prima volta che vorrebbe «che gli Stati Uniti avessero il 50 per cento della proprietà di una joint venture» con gli attuali proprietari, cioè una compagnia controllata dalla cinese ByteDance, e anche Elon Musk ha aggiunto una nuova sfumatura alla sua posizione sulla faccenda: «L’attuale situazione in cui TikTok può operare negli Stati Uniti ma X non può operare in Cina è sbilanciata. Qualcosa deve cambiare».

Si affaccia così l’ipotesi che il tema di fondo sia la guerra commerciale, e Trump abbia ordinato di “salvare” la piattaforma cinese per imporre, in cambio, l’apertura di Pechino ai prodotti digitali banditi dal regime, o qualcosa di simile.

Leader legittimato

Trump è sempre Trump. Ma quello che è stato incoronato ieri è sotto certi aspetti non irrilevanti un personaggio diverso da quello che a sorpresa e con un modesto margine aveva sconfitto Hillary Clinton nel 2016. Innanzitutto, è un pregiudicato, condannato senza pena da un tribunale di New York per 34 capi di imputazione, caso unico nella storia americana.

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Poi è il capo di un movimento che ha cambiato il patrimonio genetico del Partito repubblicano, incorporando ambiti e interessi che tradizionalmente erano allineati politicamente con i democratici, innanzitutto la Silicon Valley, legittimato da un’affermazione elettorale netta, corredata dalla conquista del voto popolare, la prima volta per un presidente repubblicano negli ultimi vent’anni.

Infine, questo Trump gode di agibilità politica e legittimazione internazionale, si presenta come il rappresentante di una forza stabile sulla scena globale, non come il capriccio di una tornata elettorale che ha smentito i pronostici.

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