La cifra personale del candidato repubblicano è sempre stata l’attacco diretto al suo avversario, senza troppo badare alla veridicità dei fatti. Stavolta però è stato lui a essere vittima di questo metodo da parte di Kamala Harris
C’erano una volta i dibattiti, poi è arrivato Trump. E pensare che il confronto tra candidati nella politica americana era nato molto prima dell’uso della televisione nel lontano 1858, tra due candidati alla carica di senatore dell’Illinois, il democratico Stephen Douglas e il repubblicano Abraham Lincoln.
All’epoca il confronto era incentrato sui valori e la morale della schiavitù e della libertà e avevano attirato un gran pubblico. Poco più di cent’anni dopo un format simile era approdato in televisione e in radio con un confronto diretto tra due candidati presidente, Richard Nixon e John Fitzgerald Kennedy.
Fino al 2012 la tradizione era stata mantenuta e gli analisti giudicavano le performance anche per le gaffe e il linguaggio non verbale, memorizzando anche eventuali battute divertenti, ma si valutava innanzitutto la competenza del candidato.
Poi c’è stata la candidatura di Donald Trump alle primarie repubblicane e sin dall’inizio si capiva che tutto sarebbe potuto cambiare. Una delle prime frasi pronunciate dall’allora personaggio televisivo riguardava i migranti messicani, definiti «stupratori».
Un tono che qualche anno prima avrebbe già posto la parola fine a una corsa presidenziale. Però si era aperta una nuova era per una precisa ragione: Trump era il campione mediatico che serviva per emergere a una fazione repubblicana estremista che si potrebbe definire “conservatorismo del risentimento” proveniente dalle fila dei democratici del Sud, ex segregazionisti che non accettavano il nuovo corso del partito e che erano stati accolti a inizio anni ’70.
Però fino all’ascesa del tycoon erano sempre rimasti sottotraccia, abbandonando via via la caratterizzazione geografica per creare un brodo di cultura etno-nazionalista che avrebbe abbracciato Trump come suo Messia. Gli insulti hanno spazzato via una generazione di leader repubblicani, dall’ex governatore della Florida Jeb Bush fino ai promettenti senatori Marco Rubio e Ted Cruz, entrambi divenuti fedeli servitori della causa trumpiana.
Già nel 2016 il nuovo modo di dibattere, fatto di attacchi personali e illazioni, aveva messo sulla difensiva la candidata favorita di quella tornata, Hillary Clinton, che pensava di controbattere con competenza e preparazione la marea di fake news e di insulti contro di lei culminata nella delirante teoria del complotto del Pizzagate, secondo la quale lei e altri leader dem avrebbero fatto parte di una congrega di pedofili satanisti dediti ai sacrifici di bambini.
Quattro anni più tardi, un politico tradizionale come Joe Biden si era difeso meglio, spesso zittendo a brutto muso l’avversario che comunque sapeva ancora condurre il gioco e dipingeva l’anziano statista come «corrotto» e in «combutta con i cinesi».
Anche in questo caso c’era ben poco di vero, ma tanto bastava per fissare nella mente degli americani il nomignolo “Crooked Joe” così come “Killary” quattro anni prima. Stavolta qualcosa è cambiato, non solo perché Trump ha ormai 78 anni compiuti e fa sempre più fatica a fare discorsi lunghi che abbiano un senso compiuto, ormai ha perso quel carattere di novità.
Ma anche perché ormai anche l’avversaria Kamala Harris è capace di usare l’attacco personale e la character assassination e già lo aveva dimostrato nel 2019, quando aveva evocato senza troppi complimenti l’amicizia di Joe Biden con il senatore James Eastland del Mississippi, un noto razzista antisemita difensore della segregazione razziale. L’attacco allora non aveva funzionato tanto che poi avrebbe trovato una conciliazione con l’ex vicepresidente diventando la numero due del ticket dem.
Stavolta Harris, a differenza di Clinton e Biden, non ha pensato a essere competente né presidenziale, anzi le proposte economiche rimangono molto vaghe e ricalcate su quelle di Joe Biden. Il suo obiettivo era demolire l’avversario punzecchiandolo nei punti giusti affinché diventasse lo stesso dei comizi, tanto da fargli pronunciare di fronte a 67 milioni di spettatori l’assurda illazione dei migranti haitiani che mangerebbero i gatti e i cani di una cittadina dell’Ohio.
Trump ha quindi dovuto assaggiare la sua medicina somministrata da una politica che negli ultimi tre anni e mezzo era sembrata appannata e nell’ombra rispetto a Joe Biden. A questo punto però, dato che anche dopo Trump il partito repubblicano non tornerà più quello di prima e il populismo economico è una cifra retorica utilizzata a piene mani anche dai democratici, i dibattiti presidenziali hanno ancora un’utilità? Secondo gli ultimi risultati elettorali, forse no.
Difficile valutare quelli con Trump, ma possiamo dire che il trionfo del repubblicano Mitt Romney nei confronti del democratico Barack Obama nel 2012 non ha portato a una sua affermazione elettorale, né si presume che questa volta Harris possa avere davanti a sé una cavalcata trionfale fino al 5 novembre. In un’epoca in cui le due Americhe hanno due visioni diverse dei fatti reali, è difficile discutere su una base comune. E allora ecco che a funzionare sempre è la character assassination. E stavolta Trump non è il carnefice.
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