Per Trump Netanyahu è «un eroe». Il piano per attaccare di nuovo l’Iran

«Un eroe» senza il quale «Israele avrebbe potuto rischiare di non esistere neppure». Un alleato col quale «i rapporti non potrebbero essere migliori di così». Almeno a parole, l’accoglienza riservata da Donald Trump a Benjamin Netanyahu è stata con tutti gli onori. Lo si è visto anzitutto dalle minacce all’Iran lasciate scivolare da Trump ai microfoni dei cronisti prima ancora che l’incontro iniziasse: se Teheran insiste coi missili, certo che supporterà un attacco. Se lo fa col nucleare, «immediatamente». Netanyahu da Trump per un patto iniquo: altre bombe in cambio di una “pace” fragile La fase 2 Dopo essersi interfacciato col segretario di Stato, Marco Rubio, il segretario della Difesa, Pete Hegseth e il capo di Stato maggiore Dan Caine, e aver avuto pure una videoconferenza con Elon Musk, il premier israeliano ha avuto con Trump il suo sesto incontro dell’anno, svoltosi nella residenza di Mar-a-Lago che per le vacanze natalizie diventa centro della diplomazia globale. Il momento di raccordo tra premier e presidente arriva in un momento cruciale per determinare l’incerto futuro di Gaza e dei conflitti con Hamas, Hezbollah e l’Iran, il nemico supremo di Israele: itre scenari sono entrati contemporaneamente in una fase in cui rimandare le scelte rischia di essere più pericoloso che prenderle.La prima fase del piano americano per Gaza, articolato in venti punti e presentato come l’architrave della nuova strategia regionale di Trump, si avvia alla conclusione, e con l’incontro di Mar-a-Lago Netanyahu intende fare un passo per l’avvio della seconda fase. Trump mina l’Europa con la sua costruzione ideologica di odio I risultati finora, dal punto di vista israeliano e americano, sono concreti ma incompleti: gli ostaggi sono stati quasi tutti riconsegnati – Hamas probabilmente non sarà in grado di restituire i resti del corpo dell’ultimo ostaggio mancante – gli aiuti entrano nella Striscia e i termini generali del cessate il fuoco che Trump ha presentato come il suo grande successo globale sono messi alla prova dalle continue violazioni da parte israeliana. Netanyahu è arrivato in Florida con l’intenzione di trasformare questo momento di sospensione in una scelta di campo: ha presentato a Trump e ai suoi emissari una lettura chiara della situazione, dove la fase attuale può diventare l’inizio di una stabilizzazione duratura solo con la neutralizzazione definitiva di Hamas. Poco prima dell’incontro, le brigate Ezzedin al Qassam, braccio armato di Hamas, hanno annunciato che non rinunceranno alle armi: «Il nostro popolo si sta difendendo e non rinuncerà alle armi finché persisterà l'occupazione, anche se dovrà combattere a mani nude», ha dichiarato il nuovo portavoce della formazione. Va letta in questo contesto la risposta data da Trump ai cronisti prima di infilarsi nell’incontro: quando inizierà questa fase 2? «Il più rapidamente possibile, ma ci dev’essere il disarmo di Hamas, altrimenti sì che sarebbe rapido». Il messaggio di Israele è costruito anche in termini di eredità politica. Netanyahu sa che Trump è sensibile al tema del lascito storico e perciò mette sul tavolo una contrapposizione brutale. Trump, Putin e Netanyahu: i tre cavalieri dell'Apocalisse del ventunesimo secolo Il versante iraniano È in questo contesto che Netanyahu insiste su una tesi che va oltre Gaza e che tocca il cuore della strategia regionale: la pace non nasce dal compromesso, ma dalla deterrenza. Per il premier israeliano, Hamas, Hezbollah e le milizie sciite non sono attori separati, ma tasselli di una stessa architettura, dove il fulcro è l’Iran. Convincere Trump di questa visione significa spostare l’asse della politica americana verso una maggiore disponibilità all’uso della forza o, almeno, verso la legittimazione preventiva di operazioni future. «L’Iran dovrebbe fare un accordo, e vorrebbe, ma non sempre va così», ha detto Trump prima dell’incontro; sollecitato dai cronisti su un suo via libera a un attacco, si è spinto anche su questo fronte. «Se l’Iran con il riarmo si rialza noi lo buttiamo giù». E se ci prova non solo coi missili ma col nucleare, «immediatamente». Nel vertice di Mar-a-Lago il vero centro è l’Iran, non Gaza, e Netanyahu vuole che la fase attuale venga letta come un preludio, non come un punto di arrivo. Questa strategia, tuttavia, arriva in un momento di transizione anche all’interno dell’apparato israeliano. L’assenza di Ron Dermer, ex ministro per gli affari strategici e per anni canale privilegiato con il mondo di Trump, pesa. Dermer aveva dimostrato di saper leggere il tycoon, arrivando persino a prevedere un coinvolgimento diretto degli Usa in un’azione contro l’Iran quando molti a Tel Aviv lo escludevano. Trump ha sempre sostenuto l’alleato Bibi, arrivando fino a chiedere al presidente Herzog di concedergli la grazia nel processo per corruzione, ma negli ultimi mesi si è mostrato freddo rispetto ad alcune iniziative israeliane, compresi gli attacchi in Siria, che minacciano le iniziative di pace tessute a Washington. Ed è attento all’umore dell’opinione pubblica, poco incline al coinvolgimento nell’ennesima guerra in Medio Oriente. Israele, cresce il movimento contro la grazia a Netanyahu: «Basta menzogne»