Nel primo giorno alla Casa Bianca il presidente ha epurato mille funzionari di Biden e perdonato gli assalitori di Capitol Hill. La cancellazione del diritto di nascita innesca l’azione legale degli Stati democratici. Ma alcuni dei decreti in realtà sono impopolari
«Non ci sono ostacoli sulla nostra via». Donald Trump vede una strada sgombra davanti a sé e il suo programma di governo prende già corpo nella raffica di ordini esecutivi firmati e nelle promesse fatte dopo il giuramento.
Il presidente ha annunciato attraverso il social Truth le purghe di oltre mille funzionari nominati da Joe Biden, tutte persone che «non sono allineate con la nostra visione di Make America Great Again». In cima alla lista ci sono il generale Mark Milley – già capo delle forze armate e bersaglio prediletto di Trump, che infatti Biden ha schermato concedendogli un preventivo atto di grazia – e lo chef Jose Andres, che il presidente democratico aveva messo in una commissione su sport e nutrizione.
Anche il diplomatico Brian Hook e l’ex sindaca di Atlanta Keisha sono stati rimossi dai loro incarichi nella pubblica amministrazione, completando il quartetto di licenziamenti che, ha scritto Trump, sono il preludio di «molti, molti altri». Ha concluso il post con la frase che lo ha reso celebre nel reality The Apprentice: «You’re fired!».
Il maggior trauma possibile
Non sono iniziative del tutto inedite. Le regole sullo spoils system danno al presidente ampi spazi di manovra sugli incarichi federali, e lo stesso Biden nella prima settimana alla Casa Bianca aveva sostituito un migliaio di funzionari, dando ampio risalto ad alcuni licenziamenti simbolici di lealisti trumpiani. Trump sta facendo la stessa cosa, ma curandosi di eseguirla nel modo più traumatico possibile, per segnalare alla base che sta davvero rivoltando il deep state.
Nella prima giornata piena da presidente, Trump ha incontrato una delegazione dei repubblicani al Congresso e ha avuto colloqui con lo speaker della Camera, Mike Johnson, e il leader del Senato, John Thune.
In agenda c’è un disegno di legge (o forse due) per estendere i tagli fiscali, diminuire la spesa federale e dare una stretta all’immigrazione, obiettivi che i repubblicani vogliono raggiungere ricorrendo a una procedura che permette di passare leggi con una maggioranza semplice al Senato.
Trump ha poi annunciato un massiccio programma d’investimento sulle infrastrutture, esibizione muscolare di forza perché «il mondo sappia che l’America è tornata».
Guerra commerciale
Il presidente ha dato anche ordine di prendere misure ostili contro i paesi che impongono una sovrattassa alle operazioni estere delle multinazionali americane, misura prevista nel quadro della global tax negoziata dai paesi dell’Ocse, dalla quale evidentemente l’amministrazione si sta sfilando.
Sempre in materia commerciale, Trump ha promesso l’imposizione di dazi del 25 per cento sulle importazioni da Canada e Messico dal 1° febbraio, barriere del 100 per cento sui beni cinesi se il regime di Pechino si rifiuterà di cedere almeno la metà di TikTok a un’azienda americana e promesse di tassare anche i prodotti europei se l’Unione non aumenterà gli acquisti di petrolio americano. Le iniziative su immigrazione, ambiente e diritti civili, unite alla generalizzata amnistia per gli assaltatori di Capitol Hill, completano il quadro delle riforme che Trump vuole imporre alla massima velocità.
Tutto questo era ampiamente previsto nell’agenda Maga, ma i proclami che da comizi si trasformano in norme sono davvero graditi al popolo di Trump?
I sondaggi dicono che non tutti i provvedimenti di questo inizio sono particolarmente amati dagli elettori, e alcuni sono attivamente avversati, come ad esempio la volontà di eliminare lo ius soli, che peraltro appare in netto contrasto con la Costituzione.
Oltre una decina di stati democratici ha fatto causa all’amministrazione proprio su questo punto, che promette di essere oggetto di dure battaglie legali. Secondo i dati di Ap e Center for Public Affairs Research, soltanto il 30 per cento degli americani è contrario a dare la cittadinanza a chi nasce sul suolo degli Stati Uniti. I repubblicani sono più inclini dei democratici alla restrizione, ma anche in quel gruppo il consenso è inferiore al 50 per cento.
Quando Trump annuncia la dichiarazione dello stato di emergenza al confine con il Messico incontra il favore della maggioranza degli americani, e la percentuale si fa schiacciante sul rimpatrio dei clandestini che hanno commesso crimini violenti. Anche costringere gli impiegati della pubblica amministrazione a tornare al lavoro in presenza cinque giorni a settimana è un provvedimento gradito in generale, e in particolare al popolo Maga.
Ma la grazia concessa ai condannati per l’assalto del Campidoglio non è una misura popolare, nemmeno fra i repubblicani: il 20 per cento degli americani è favorevole all’amnistia, e la percentuale di repubblicani si ferma al 40. Discorso simile per le misure ambientali.
La maggioranza degli elettori di Trump è favorevole a nuove trivellazioni petrolifere al largo delle coste americane, ma soltanto il 45 per cento dei repubblicani è favorevole all’uscita del paese dagli accordi di Parigi. Insomma, le misure prese con impeto decisionista dal presidente populista non sono del tutto in linea con gli umori del suo popolo.
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