Il Presidential Transition Act del 1963 governa la transizione da un presidente all’altro. La macchina della transizione si attiva circa sei mesi prima delle elezioni presidenziali. Ci dice che il presidente è un inquilino provvisorio anche nell’ipotesi che sia rieletto. Nello spirito di Thomas Hobbes, le funzioni pubbliche rappresentative del sovrano sono persone fittizie create da leggi e regole. L’arbitrio è nella retorica più che nel meccanismo se è vero che, mentre Donald Trump strilla che se perderà le elezioni ciò sarà a causa dei brogli, il suo staff è già dentro il processo che apre al passaggio di consegne. Ed è l’amministrazione in carica a metterlo in moto, non un sistema burocratico autonomo. Ogni presidente sceglie i funzionari che devono lavorare insieme a quelli scelti dallo sfidante e possibile nuovo presidente. Intervistato qualche settimana fa, il responsabile del Center for Presidential Transition ha dichiarato che c’è un «un sacco di retorica durissima» da parte delle due tifoserie, «ma dietro le quinte ci sono centinaia di funzionari che lavorano alla transizione». Tutti stanno «rispettando le scadenze... Per ora ognuna è stata rispettata». Per ora.

L’uomo “nuovo”

Questa nota sibillina dimostra che questa elezione non è come le altre; certo, si dice quasi sempre così, ma in questa occasione lo si dice con cognizione di causa. Da quando è entrato nell’agone politico, Trump ha sparso a piene mani due semi: quello della sua unicità e quello della sua incompatibilità con l’establishment politico (anche del suo partito). Semi della discordia ossigenati dal dubbio che il sistema sia manipolato per espellere l’uomo nuovo. L’uomo nuovo ha cavalcato questa politica populista per l’intera presidenza, cercando di dimostrare in ogni istante che stare nel Palazzo non cambiava il suo carattere né la sua relazione difficile col sistema: egli era e sarebbe restato un anti establishment.

Questa strategia ha avuto l’effetto calcolato: nell’incuneare nell’opinione il dubbio sulla legittimità del sistema istituzionale di controllo del potere ( i checks and balance) perché usato dall’establishment per espellere un corpo estraneo. L’uomo nuovo, rappresentativo di tutta l’America non politica, del cittadino “comune” che lavora, guadagna, ambisce a star bene e che è fuori e lontano da Washington. Che dimostra, con il bisogno di entrare nel Palazzo, di non potersi più fidare di mediatori e rappresentanti. L’uomo comune deve fare da solo, ed entrare alla Casa Bianca per riportare ordine: prima gli americani.

La retorica populista ha fin qui funzionato, mettendo in dubbio quel che viene appreso nei libri: che il sistema istituzionale, per intenderci la Costituzione, sia un’armatura che a un tempo protegge e ingabbia il corpo dato a prestito dal personale politico. La retorica populista ha voluto far saltare questa credenza condivisa (scritta come su una pietra nel modo di pensare degli americani) e, a considerare il sostegno che Trump ha avuto, e ha ancora negli stati chiave, ha fatto breccia.

Ecco perché la sua campagna martellante sui futuri brogli ai seggi, la sua anticipazione che un’eventuale sconfitta non deve essere accettata o ritenuta valida, devono destare preoccupazione. Per questo sarebbe desiderabile una vittoria solida di Joe Biden, che metta a tacere ogni dubbio. La forza del sistema America sta nella sua Costituzione. In quel formidabile ingranaggio di limitazioni incrociate che muovono il tutto senza scossoni; a molti, sembra una ricetta per l’immobilismo. Ma non lo è. Non solo perché sono stati possibili numerosi emendamenti alla Costituzione – e da questi è dipesa l’evoluzione della repubblica in democrazia e poi la conquista dei diritti civili contro il volere delle maggioranza – ma anche perché quel meccanismo impersonale, ha scritto Stephen Holmes, è stato in effetti concepito per consentire il movimento, non l’immobilismo. Per durare all’infinito nonostante le turbolenze. Generazioni di osservatori hanno per questo ammirato l’ordine newtoniano di questa Costituzione che come una forza invisibile fa muovere corpi di diversa massa in andamento sincronico, come un orologio.

Fermare l’oclocrazia

Quel che viene più criticato – non da oggi – è il sistema che traduce la volontà popolare in potere costituito (i collegi dei grandi elettori nei singoli stati per i quali, non per il Presidente, i cittadini americani votano). Il rapporto voto – istituzioni è stato oggetto di grande diffidenza da parte dei Padri fondatori, formatisi sui testi del repubblicanesimo romano e poi di Hume e Montesquieu. Fermare l’oclocrazia, bloccare ogni fazione che mirasse a controllare il governo controllando l’opinione dei cittadini, e conquistando la maggioranza. Spezzare il meccanismo di unificazione della volontà popolare che tende a generare maggioranze ingombranti. Spezzarlo con la federazione e un sistema di traduzione indiretta dei voti in potere costituito.

Tutto il meccanismo si regge su una radicale diffidenza nella democrazia di numeri e massa. E a considerare il fenomeno Trump pare che quello dei fondatori non fosse timore infondato. Se non che, quel sistema di controllo non ha funzionato proprio quando doveva: Trump non è stato eletto dal voto popolare, nel 2016, ma dal meccanismo dei collegi. Non solo non ha funzionato, ma è valso a dare ossigeno alla sua propaganda, che dice: la macchina istituzionale non dà legittimità; a darla è il volere popolare. Se stenta a mostrarsi è per un ordine manipolato dai politici. Quello di Clinton fu un voto manufatto da raggiri.

Il Center for Presidential Transition è in moto. Trump può gettare discredito sul rivale e tutto l’establishment, ma la macchina è oliata. Ottimismo ingenuo? No, ma il catastrofismo non ha molto senso. La società americana è in ebollizione dalle origini, con diversi momenti drammatici; è una società anche violenta, retta su un arcigno e a sua volta violento sistema coercitivo. È plurale e nazionalista (o patriottica), ingenua nel credere nel sogno americano, poco tollerante con chi lo critica. Questo mondo del sentire popolare è in tensione, non da oggi, con quello che tiene in moto le istituzioni. In questa tensione, e nella corazza istituzionale che ne attutisce i colpi, sta quel fondo di certezza che la democrazia americana sia ancora in salute; forse ammaccata ma non moribonda.

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