Nei tribunali tunisini regnano la tensione e la paura. Hanno paura i giudici, quelli non allineati al presiden

te Kais Saied, i politici e i giornalisti. Hanno paura i loro famigliari e gli attivisti che da quasi due anni stanno cercando di richiamare l’attenzione pubblica sulla svolta autoritaria del paese. La macchina del fango della propaganda di stato è a pieno regime, così come il lavoro degli apparati di sicurezza coinvolti non solo nella repressione ma anche nella gestione dei flussi migratori verso l’Europa.

Nella sede del Consiglio superiore della magistratura tunisino, a Rue Mustafa Sfar, regna invece il silenzio. A un anno e mezzo dallo scioglimento dell’organismo, la separazione dei poteri tra esecutivo e giudiziario è sempre più flebile e da Palazzo Cartagine non ci sono accenni di un passo indietro.

«Non tornerò in Tunisia finché mio padre non uscirà di prigione», dice Aziz Akremi. Non vede suo padre dallo scorso febbraio, giorno in cui trenta agenti della polizia tunisina hanno fatto irruzione in casa e lo hanno messo in stato di arresto. Suo padre, Bechir Akremi, è uno dei giudici più noti del paese. Per anni ha condotto inchieste contro la corruzione politica e le violenze della polizia, e ha difeso a più riprese l’indipendenza della magistratura dal potere politico. Di recente ha cercato il sostegno di ong e associazioni internazionali per tenere alta l’attenzione su ciò che sta accadendo in Tunisia. Un’esposizione che lo ha messo nel mirino del presidente Saied e che sta pagando a caro prezzo. 

In carcere, Bechir Akremi ha subito torture, insulti e violenze. È stato poi trasferito in condizioni di salute precarie in un istituto psichiatrico. «Se oggi qualcuno può godersi le spiagge tunisine deve ringraziare il lavoro duro che ha fatto mio padre contro le organizzazioni terroristiche», dice il figlio Aziz con orgoglio ricordando il suo operato a capo dell’antiterrorismo.

«Le accuse contro di lui sono solo di natura politica. Nel 2014 lo hanno accusato di aver insabbiato un dossier, chi aveva aperto l’indagine ha poi accantonato il caso perché non ha trovato niente. Serviva un pretesto per arrestarlo dopo quasi dieci anni», aggiunge. Si riferisce al presunto occultamento di fascicoli relativi alle indagini sugli omicidi dei politici della sinistra tunisina, Chokri Belaid e Mohamed al Brahmi, avvenuti nel 2013. Assassini sui quali aleggia lo spettro delle frange più radicali dell’islam politico.

Dopo l’accantonamento delle accuse, Bechir Akremi ha condotto indagini di successo, come quelle che hanno portato all’arresto di diversi gruppi terroristici legati agli attentati al museo del Bardo e a Sousse del 2015. Durante le indagini ha scoperto che alcuni poliziotti avevano estorto con violenze e torture alcune confessioni e ha deciso di segnalare gli agenti al ministero dell’Interno (organo è mai riformato da quando nel 2011 è caduto il regime di Zine El-Abidine Ben Ali). Una presa di posizione che gli ha causato diversi nemici tra la i servizi di sicurezza.

«Oggi in Tunisia la magistratura ha paura – dice Aziz Akremi – sono 16 i procuratori che sono implicati in fascicoli d’indagini aperti in maniera casuale in tutto il paese, mentre 57 giudici stanno ancora combattendo per essere reintegrati. Il piano di Saied è di terrorizzare la magistratura e tenerla sotto controllo per consolidare il suo potere». Una situazione figlia anche di una spietata guerriglia contro i giudici da parte dei sindacati di polizia guidati dai servizi segreti.

Azzeramento delle opposizioni

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In 24 mesi il presidente Kais Saied ha sciolto il parlamento e il Consiglio superiore della magistratura e ha dato vita alla nuova riforma costituzionale, approvata il 25 luglio del 2022 con solo il 37 per cento delle preferenze, che ha portato a un accentramento di poteri senza precedenti e alla riduzione dei poteri dei partiti e del parlamento. A pagarne le conseguenze politiche sono tutti: cittadini ed elite politica del paese.

Lo stravolgimento dell’assetto costituzionale della Tunisia è stato accompagnato da ondate di arresti arbitrari che hanno coinvolto anche oppositori politici. Dallo scorso 17 aprile si trova in carcere uno dei volti più noti della Tunisia contemporanea, il leader del partito Ennahda ed ex speaker del parlamento tunisino Rachid Ghannouchi. La polizia lo ha prelevato con forza dalla sua abitazione il giorno dopo aver pronunciato in un discorso pubblico che «la Tunisia senza Ennahda, senza l’Islam politico, senza la sinistra, o senza qualsiasi altra componente, è diretta verso la guerra civile». Su di lui pendono dieci capi d’accusa diversi dalla sovversione al terrorismo.

«Nonostante l’età (81 anni ndr.) mio padre sta bene in termini di salute, ma è in prigione per motivi politici. È stato arrestato con accuse ridicole a due giorni dalle celebrazioni della fine del Ramadan», dice la figlia Yusra Ghannouchi. «Quello che sta accadendo è speculare alle contro-rivoluzioni avvenute negli altri paesi della primavera araba. », aggiunge.

Dalla rivoluzione del 2011, Ennahda è stato uno dei partiti più importanti della scena politica tunisina, ma non senza tensioni politiche tra la popolazione, fin da subito impaurita dal conservatorismo islamista. Negli ultimi tempi il consenso del partito è calato, sia per via di una situazione economica disastrata sia per via di una crisi politica e sociale sempre più ampia che ha spinto negli anni migliaia di tunisini a lasciare il paese. La repressione di Palazzo Cartagine ha portato anche all’arresto di altri noti politici che negli scorsi mesi hanno creato una coalizione dal nome il Fronte della salvezza nazionale, al cui interno ci sono finiti tutti i partiti di opposizione a Saied.

Non è chiaro quale sarà il futuro di Ennahda, fino a due anni fa il loro leader era a capo del parlamento ma ora con la stretta di Saied, il rischio è che il partito rischi di fare la stessa fine dei fratelli musulmani in Egitto, azzerati dopo la presa di potere del generale Abdel Fattah al Sisi nell’estate del 2013. Se al Sisi in Egitto ha iniziato con la repressione dei fratelli musulmani, per poi fare tabula rasa nei confronti dell’intera società civile e del resto dei partiti politici, facendo arrestare circa 60mila persone, lo stesso rischia di accadere in Tunisia.

«Saied sta solo prendendo tempo per rimanere al potere e sta ricattando l’Europa ma abbiamo visto che queste dittature non dureranno per sempre. La rivoluzione ci ha dato una lezione importante: la stabilità può arrivare solo con la democrazia», dice Yusra Ghannouchi.

Questione migranti

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Tra i corridoi di Bruxelles e di Roma la priorità è arrivare il prima possibile alla sigla del partenariato economico con Tunisi che dovrebbe arrivare oggi. Dopo una serie di colloqui telefonici e visite di stato (di cui due di Meloni), a Giugno era stata annunciata l’intesa su un macro accordo dal valore di circa un miliardo di euro tra l’Ue e il paese nordafricano. Ma la tanto attesa firma dell’accordo è slittata e dopo il rinvio a causa della festa musulmana del Sacrificio del 28 giugno scorso.

«In Tunisia Meloni non ha una visione di lungo periodo, conduce solo una politica sporca. In Europa fornisce supporto al presidente Kais Saied e in cambio noi usiamo i servizi di sicurezza per contrastare l’immigrazione irregolare», dice Aziz Akremi. L’obiettivo è da raggiungere a tutti i costi e i governi europei hanno preferito chiudere un occhio sulle violenze e sulle discriminazioni commesse contro i migranti subsahariani presenti nel paese. Violenze acuite dopo che il presidente Saied, lo scorso febbraio, ha pronunciato un discorso xenofobo accusando la comunità di mettere in atto un piano di sostituzione etnica.

Da giorni i migranti vengono caricati su autobus e mezzi prima di esseri abbandonati nel deserto al confine con la Libia senza né cibo né acqua. Le prossime settimane saranno decisive per Tunisi, sempre più vicino al collasso economico e sociale che forse neanche l’accordo europeo potrà evitare. «È difficile predire la storia, ma i tunisini oggi stanno soffrendo. L’economia è disastrata, il dinaro non vale niente. La classe media sta scomparendo, ma un giorno la bomba sociale esploderà come è sempre accaduto. Non so dirti quando», dice Aziz Akremi.


 

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