Giorgia Meloni è tornata dalla Tunisia a mani vuote. Il suo secondo viaggio in meno di una settimana alla corte del presidente autocrate Kais Saied si è rivelato, come prevedibile, un buco nell’acqua e ora la strategia del governo nazionale per arginare la nuova ondata migratoria sta incontrando più difficoltà del previsto.

Saied ha già detto prima della visita di Meloni – in cui è stata accompagnata dalla presidente della Commissione europea e dal premier olandese Mark Rutte – di non voler fare il poliziotto della frontiera. Soprattutto alla luce degli esigui finanziamenti proposti da Bruxelles: cento milioni subito e altri 150 nei prossimi mesi.

Briciole per un paese che da mesi è a rischio default. Ma la vicenda tunisina dimostra, ancora una volta, la mancanza di una strategia chiara da parte dell’Italia e anche la mancata comprensione delle reali esigenze interne di un partner fondamentale come la Tunisia. Eppure, citando Enrico Mattei come esempio da seguire, nel suo discorso di insediamento Meloni aveva detto: «Ci piacerebbe recuperare, dopo anni in cui si è preferito indietreggiare, il nostro ruolo strategico nel Mediterraneo». Ma questo, in cosa consiste esattamente?

A circa otto mesi dal suo insediamento, l’agenda estera del governo Meloni non si è discostata di molto da quella di altri esecutivi italiani. In tema migratorio la gestione è rimasta in ottica emergenziale, puntando a far fronte ai vari picchi di sbarchi che si susseguono nei vari mesi dell’anno. In tema energetico, invece, Palazzo Chigi è in continuità con le basi gettate dal governo di Mario Draghi.

I viaggi in Africa

APN

Stando alle dichiarazioni pubbliche di Meloni, «ottobre è l’occasione per arrivare alla presentazione definitiva del piano», e il palco adatto sarà quello del summit intergovernativo Italia-Africa, una conferenza presentata come una novità a Tunisi dalla premier ma che in realtà si tiene ogni due anni dal 2016.

Mancano ancora quattro mesi al prossimo ottobre e del Piano Mattei non c’è traccia. La premier finora è stata in visita di stato in cinque paesi africani tra cui: Egitto (in occasione della Cop27), Algeria (22-23 gennaio), Libia (28 gennaio), Etiopia (14-15 aprile) e infine Tunisia (6 e 11 giugno). Il 24 maggio scorso, invece, a Palazzo Chigi è stato accolto il presidente dell’Angola mentre qualche settimana più tardi (il 7 giugno) è stato il turno del premier libico del governo di unità nazionale Abdel Hamid Dbeibeh.

Visite che al momento hanno portato alla sigla di una serie di intese sulla sicurezza per il controllo delle frontiere e accordi energetici grazie alla presenza durante i viaggi istituzionali dell’amministratore delegato di Eni, Claudio Descalzi. Nulla di innovativo e di diverso rispetto a quanto fatto dal governo di Mario Draghi che in piena crisi energetica ha cercato di diminuire la dipendenza italiana dal gas russo affidandosi a paesi come Algeria, Libia, Qatar, Angola ed Emirati Arabi Uniti.

Ma la strategia energetica di Meloni ha causato attriti con il governo di Tunisi che non ha accolto con entusiasmo la recente proposta di creare un nuovo gasdotto tra Italia e Algeria per bypassare il Transmed, che trasporta il gas algerino fino a Mazara del Vallo passando per il territorio tunisino. Un gasdotto dal quale la Tunisia ottiene circa il 5 per cento dei profitti annui in base alla quantità di gas che arriva in Italia e che rischia di mettere il bastone tra le ruote nell’agenda di Meloni a Tunisi.

Illusioni

«L’Africa in Italia non ci sta, lo abbiamo sempre detto», scriveva in un tweet la premier Meloni nel lontano 2018 contro i flussi migratori. Ma è anche vero che la piccola Italia da sola non può far fronte alle crisi interne che attanagliano i paesi africani e in particolare quelli del Maghreb da oltre dieci anni. Alla base del Piano Mattei c’è la pretesa che Roma, con i suoi pochi mezzi e le difficoltà di natura interna, possa arrivare a superare la crisi politica libica, quella economica della Tunisia e arrestare i flussi migratori che provengono dai paesi del Sahel.

Una visione che sottovaluta la complessità politica e sociale degli stati africani. Inoltre, la premier non può contare neanche su alleati forti in Europa in grado di poter appoggiare il suo Piano Mattei e non soltanto per divergenze di vedute politiche.

In questo momento storico la Francia si sta ritirando da paesi come il Mali e il Burkina Faso e rimane cauta nelle relazioni con Tunisi per via anche della svolta autoritaria del presidente Saied. La Germania, invece, non ha mai avuto una forte politica estera nel continente africano e ora con la guerra in Ucraina non aumenterà lì i suoi investimenti.

Infine, la Spagna, da sempre legata territorialmente al Marocco, si trova ad affrontare una crisi politica interna dopo le dimissioni del premier socialista Pedro Sanchez in seguito alla sconfitta alle ultime elezioni amministrative. Il rischio è che mentre Roma guarda alla sponda sud del Mediterraneo, le altri capitali europee guardano altrove.

Il ricatto

Un risultato prodotto da tante chiacchiere sul piano Mattei è quello di aver dato ai paesi del nord Africa la consapevolezza di essere essenziali e quindi di tenere sotto ricatto Roma e Bruxelles. Un primo esempio lo abbiamo avuto nel fine settimana con il presidente Saied che ha alzato la posta sui finanziamenti proposti dall’Unione europea.

In Libia, è avvenuto lo stesso con la piena legittimazione del generale Haftar, accolto a Palazzo Chigi a maggio. Secondo diversi analisti internazionali alcuni uomini legati al leader della Cirenaica sono coinvolti nella gestione della rete del traffico di migranti che dall’est del paese arrivano verso le coste italiane.

E per fermare quello stesso flusso, Haftar è diventato un interlocutore legittimo con cui interagire e stringere accordi a Roma. Fermare le partenze in cambio di un riconoscimento politico in una Libia dove si cerca di ricostruire con tante difficoltà un processo di transizione politica che non è stato in grado di portare a nuove elezioni.

 

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