Come lamentato da molti utenti turchi e confermato da NetBlocks, tra mercoledì e giovedì il governo turco, guidato da Recep Tayyip Erdogan, ha bloccato l’accesso a Twitter dai principali provider internet del paese. 

La censura ha colpito con l’attivazione di un “filtro” gli utenti di TTNet e Turkcell per primi, per poi estendersi a un più ampio bacino di utenti. 

Il blocco è durato almeno 12 ore ed è stato risolto nelle prime ore della mattinata in seguito a un accordo tra il governo turco e Elon Musk, ceo della piattaforma, in merito alla necessità di contrastare la «disinformazione» sul disastro generata da «account fake».

La censura

La Turchia si conferma una democrazia “procedurale” che nella sostanza fatica a essere tale. Il blocco di Twitter ha silenziato le voci critiche nei confronti del presidente Erdogan, ritenuto colpevole per la lentezza dei soccorsi, troppo a lungo assenti dai luoghi del disastro. 

Il governo ha derubricato e condannato le accuse come atti di «disinformazione» perpetrati, secondo Erdogan, da «individui disonorevoli», irrispettosi delle, attualmente, 16mila vittime del terremoto. 

Eppure anche Twitter avrebbe potuto contribuire, nelle ore che continuano a essere critiche, al soccorso dei sopravvissuti. In uno scenario così caotico, come quello del terremoto, ogni mezzo di coordinamento e segnalazione può essere vitale. Non da meno la componente emotiva della violenza: quanti hanno perso i contatti con le persone più care temendo il peggio?

A quale “pubblica sicurezza” il governo turco ha dato la priorità? Chi ha “protetto” la censura? Difficile cogliere il risvolto pratico della retorica paternalistica adottata dal governo che si fregia di combattere la post-verità.

Aggirare il blocco

Pressoché istantanea è stata la risposta del mondo tech. Numerose piattaforme che forniscono servizi di vpn, una tecnologia piuttosto diffusa in grado di aggirare i blocchi alle reti internet imposti in Turchia, hanno facilitato l’accesso ai propri prodotti per gli utenti turchi. Nelle ultime ore, alcune vpn a pagamento sono state rese gratuite.

Non basta, però, una vpn per aggirare integralmente il complesso di metodi di sorveglianza di Ankara. Proteste e dissenso, di piazza e di feed, difficilmente sfuggono a un controllo sinottico su media e social che funziona in concerto con una fitta rete di informatori, anche occasionali, aperti alla collaborazione con i vertici. 

Una sorveglianza che reprime anche il sogno della liberalizzazione e tradisce ancora quanto di “buono” c’era nel kemalismo di Ataturk, il “padre dei turchi”. 

La prassi

Silenziare le voci critiche è la prassi di qualunque governo autocratico e la “democratura” turca è ormai nota per il proprio rapporto a dir poco problematico con la libertà di espressione e informazione. 

Oltre al temporaneo blocco del social, il governo turco ha anche, come dichiarato dalla polizia, trattenuto 18 persone e ne ha arrestate 5 con l’accusa di aver diffuso «post provocatori». Il complesso dilemma del bilanciamento tra necessità di sicurezza e libertà civili sembra essere stato risolto da Erdogan e associati con ragguardevole rapidità.

In Turchia ogni minaccia alla pubblica sicurezza è foriera di censure: già nel novembre 2022, in seguito all’attentato di Istanbul, il governo aveva ristretto l’accesso a Twitter, Instagram e YouTube in forza delle leggi sulla disinformazione accuratamente formulate per dare alle autorità il potere di mettere a tacere. 

Pratiche simili sono state recentemente attuate in occasione di una attacco subito dalle truppe turche ad Idlib in Siria nel 2020. Non si può non menzionare, poi, la decisione di ridurre l’accesso a Wikipedia del 2017. Per 991 giorni. 

La situazione è drammaticamente peggiorata dopo il tentato colpo di stato del 2016, dopo il quale Erdogan ha cominciato a “temere” per la tenuta del proprio potere.

La libertà di stampa

I dati più recenti, risalenti al 1 dicembre 2022, mostrano che ben 40 giornalisti sono attualmente detenuti in Turchia per atti compiuti nell’esercizio della loro professione, più del doppio del dato risalente al 2021. Questo fa della Turchia, secondo la Commissione per la protezione dei giornalisti, uno dei paesi con il più alto numero di incarcerazioni di giornalisti, insieme a Iran, Cina e Myanmar. 

L’uccisione di ben 31 giornalisti dal 1992 e la chiusura di numerose testate cartacee e online confermano il disastroso stato della libertà d’informazione nel paese. Nell’indice sulla libertà di stampa redatto da Reporters sans frontières (Rsf), la Turchia si colloca al 149esimo posto su 180, con un non invidiabile punteggio di 41 su 100.

Per avere un termine di paragone, la Russia si colloca al 155esimo con 38,8 e chiude la classifica la Corea del Nord con 13,92. Eppure, la Turchia è un membro, controverso ma strategicamente essenziale, della Nato e un paese ancora formalmente candidato all’adesione all’Unione europea, un attore, insomma, ai confini fisici e ideali del mondo occidentale alla cui amicizia (il feticismo per) la realpolitik impedisce di rinunciare. 

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