«Cristo non cammina più sulle acque. Niente più miracoli». Fu con queste parole che nell’estate del 1987 l’eterno ministro degli Esteri sovietico, Andrej Gromyko, accolse le richieste dei tatari di Crimea – rastrellati e deportati in massa da Stalin nel maggio del 1944. Quasi la metà morì di stenti, ma l’Unione sovietica spirò prima di poterne vedere la riabilitazione.

Giorni fa il parlamento federale del Canada, dove è storicamente significativa la presenza del nazionalismo ucraino, ne ha riconosciuto il genocidio. Più che di punizione collettiva motivata da istanze di collaborazionismo con l’occupazione nazista, si trattò in effetti di una punizione preventiva architettata con scrupolo dalla paranoia di Stalin: dopo tredici guerre russo-turche e nell’imminenza dei riflettori puntati sulla Crimea a Yalta, i tatari erano visti come la quinta colonna della Turchia nello scontro per il controllo del Bosforo e dei Dardanelli.

Dal Khanato a Izyum

Figlio dell’Orda d’Oro e protetto dall’impero Ottomano, il Khanato di Crimea (Tartaria Minor, 1441-1783) incorporò le colonie genovesi lungo la costa e si distinse nell’organizzazione sistematica di incursioni nel territorio che oggi è Ucraina. Il fine era la razzia di popolazioni russe e rutene da destinare alla schiavitù. Protagonista era la cavalleria dei guerrieri nogai, che proteggeva i confini del Khanato: al netto delle uccisioni, si stima che ogni incursione potesse fornire circa 20mila schiavi al mercato di Caffa, dove la tratta verso occidente era controllata da genovesi e veneziani.

In mar Nero Neil Ascherson parla della penisola di Crimea come la morena di un ghiacciaio, nella quale restano visibili i sedimenti di civiltà e invasioni che hanno incrociato le proprie sorti fra Mediterraneo e steppe asiatiche. In questo crogiolo di identità, la violenza della tratta non è un dettaglio irrilevante, perché ci porta direttamente sulla scena del crimine di oggi, dove la Storia torna a inciampare.

Mi riferisco alla “rotta di Izyum”, che attraversa, nei punti in cui il guado è possibile, il più grande e pittoresco fra i fiumi che scorrono nella parte meridionale delle pianure dell’Europa orientale: il Seversky (Siverskyi) Donets, il più grande affluente di destra del Don. Conquistata dall’esercito di Putin a fine marzo, Izyum è un importante nodo dei trasporti, diventato di fatto il quartier generale dell’offensiva russa nel Donbass, ovvero della guerra. Da qui le truppe russe hanno cercato maldestramente il guado l’11 maggio scorso, lasciando 500 uomini sul terreno, falcidiati dall’artiglieria ucraina.

Il Khanato cessò di esistere quando, nel 1783, l’impero zarista violò la legalità internazionale (il trattato di pace sottoscritto con la Sublime Porta), sbaragliando l’ormai obsoleta cavalleria nogai e annettendosi la Crimea. Se l’approdo ai mari caldi segnalò l’ingresso della Russia nel gioco delle grandi potenze, la successiva Guerra di Crimea (1853-1856), nata nientemeno che da una disputa sull’accesso ai luoghi sacri della cristianità e terminata con la resa di Sebastopoli e la sconfitta dell’impero russo, sancì fra le altre cose l’inclusione del medio oriente e del Golfo Persico nell’economia globale, oltre a varare, grazie al telegrafo e alle foto sui quotidiani, i termini moderni del dibattito sui costi umanitari delle guerre.

Insomma, le coste settentrionali del mar Nero hanno giocato un ruolo importante nel plasmare la geopolitica europea ben prima che Stalin nel 1945 accogliesse Roosevelt e Churchill in una penisola di Crimea etnicamente ripulita e privata dell’autonomia che i bolscevichi fino ad allora le avevano riconosciuto.

Epicentro di tensioni

Annessa all’Ucraina nel 1954 per commemorare 300 anni di unione e fratellanza russo-ucraina, la Crimea durante la Guerra fredda conosce un formidabile processo di concentrazione di installazioni militari e armamenti, mirata a contrastare la proiezione statunitense nel Mediterraneo. Da sempre militari e politici a Mosca vedono nella penisola un’ambita meta di vacanze e pensionamento: fra questa presenza e i circoli politici e di affari locali esiste un rapporto di stretta simbiosi, alimentato sul mito nazionalista di una prestigiosa tradizione navale. Con il crollo dell’Unione sovietica, passato per la messa in arresto di Mikhail Gorbaciov mentre si trovava nella sua dacia di Crimea, la penisola negli ultimi trent’anni è tornata ad affacciarsi sulla scena internazionale come un epicentro di tensioni.

In realtà la parabola separatista dei russi di Crimea si compie nella prima metà degli anni Novanta, a partire dal voto del parlamento (soviet) di Simferopol che, allarmato dalla dichiarazione di indipendenza ucraina, ripristina l’autonomia della Repubblica socialista di Crimea e organizza un referendum-plebiscito che consacra l’autonomia. In questa fase il separatismo russo si riflette negli scioperi dei minatori nel distretto carbonifero di Donetsk; in Crimea culmina con l’elezione di Yuri Meškov – capo del movimento indipendentista Rossiia – a presidente della Repubblica autonoma con il 75 per cento dei suffragi.

Raggruppati attorno al ministro degli Esteri Andrei Kozyrev, a Mosca i filo-occidentali vedono in una contrazione territoriale della Russia l’opportunità di ridisegnare la statualità, accreditandosi internazionalmente come coloro che affossano l’irrazionale patriottismo granderusso.

Le elezioni ucraine del marzo 1994 portano al potere a Kyiv Leonid Kuchma, anche grazie al voto massiccio degli abitanti della penisola. Il nuovo presidente però prende il controllo degli apparati di sicurezza della regione ribelle, e il 17 marzo successivo revoca sia la Costituzione, sia l’esistenza stessa della presidenza della piccola repubblica. Dal Cremlino Eltsin appoggia: il suo omologo ucraino è considerato un pragmatico insidiato dal nazionalismo russofobo da un lato, e dal blocco comunista da un lato. Proprio quest’ultimo sarà d’ora in poi maggioritario nel voto in Crimea. E tuttavia, persino la Duma russa, dove spesso sono riecheggiate dichiarazioni incendiarie, davanti al rischio di una reale rottura si prodiga nel richiamare all’ordine i separatisti, ricordando che la penisola è una polveriera di armi micidiali.

Punto di svolta

Il vero punto di svolta nelle relazioni russo-ucraine si raggiunge il 30 maggio 1997, quando – dopo sei anni di estenuanti posticipi – il presidente russo Eltsin si reca a Kiev per siglare una serie di accordi di normalizzazione che chiudono, almeno sulla carta, una lunga scia di questioni irrisolte. Due giorni prima, i due primi ministri hanno stipulato per i due decenni a venire il pagamento di un affitto di due miliardi e mezzo di dollari (una cifra grossomodo corrispondente al debito ucraino per forniture energetiche) da parte della Federazione russa per l’utilizzo delle attrezzature portuali di Sebastopoli, oltre che come risarcimento per danni ambientali. A una formale ratifica della Costituzione dell’autonoma di Crimea da parte dei parlamentari ucraini si arriva solo nel novembre del 1998, dopo anni di emendamenti, progetti rigettati e riscritture.

Nazionalismo tataro

In campo però non ci sono solo nazionalismo russo e ucraino. Negli stessi anni infatti monta il nazionalismo indigeno tataro, con Ankara in esplicita posizione di appoggio. Questo progetto politico tataro imbocca la via della creazione di istituzioni parallele, rappresentate da una propria assemblea (Kurultai) e del proprio organismo di governo (Mejlis) con a capo leader carismatici che hanno guidato la nazione tatara negli anni della repressione più dura. Per esempio, in occasione del referendum sull’indipendenza ucraina, davanti al forte astensionismo fra i russi residenti nella penisola, i tatari si schierarono compatti con gli ucraini.

Si stima oggi che i tatari rappresentino il 12 per cento della popolazione della Crimea. Tuttavia, l’‘orda’ non si è presentata porta per porta a rivendicare i beni rapinati nel 1944. Gli anziani hanno ricostruito i segni della loro presenza, hanno puntato il dito sulle loro vecchie case, sulla topografia cancellata, sui pozzi interrati, sulle tombe musulmane usate come pietre da costruzione. Nel frattempo, il movimento tataro ha costruito abitazioni precarie, spesso creando campi nei pressi delle città.

La storia di questi ultimi trent’anni è così anche storia di conflitto e di scontri, spesso legati a dinamiche estorsive e mafiose, in una regione che si è guadagnata il nome di “Sicilia del mar Nero”.

© Riproduzione riservata