Negli ultimi anni pochi accordi europei sono stati sottoposti a una specie di stress test permanente, dovuto al mutare del contesto, come il patto di stabilità e crescita. Il dibattito sul suo funzionamento per anni ha alimentato accesi contrasti nella famiglia europea. Nel 2020, l’impatto del Covid-19 ci ha però costretti a rispondere con decisioni inimmaginabili anche soltanto nel dicembre 2019.

La commissione europea ha garantito maggiore flessibilità ai paesi che hanno dovuto sostenere spese straordinarie per arginare gli effetti della pandemia sul sistema sanitario e sul tessuto economico e sociale. Una sospensione degli obblighi del patto recentemente prorogata fino alla fine del 2023 per la crisi ucraina e adottata in parallelo con i programmi di sostegno della Bce alle economie europee.

La sorpresa oggi è che quella sospensione non ha portato al crollo economico dell’Ue né a problemi di bilancio insormontabili. L’Italia, grazie alla crescita, ha avviato una riduzione del rapporto debito/Pil arrivato al 155,3 per cento dopo gli interventi anti-ciclici del 2020. La commissione ha previsto una riduzione al 150,8 per cento nel 2021 e al 147,9 per cento nel 2022. E tuttavia ci sono buone ragioni che hanno indotto diversi paesi, fra i quali l’Italia, a chiedere che quelle regole siano cambiate e mai come oggi questo dibattito ha buone probabilità di produrre cambiamenti, superando la grossolana contrapposizione tra “frugali” e “spendaccioni”.

Rivalutare i parametri

Le “mitiche” soglie del 3 per cento per il deficit in rapporto al Pil e del 60 per cento per il debito pubblico, sono state calcolate negli anni Ottanta e hanno senso solo nell’ipotesi di una crescita del 3 per cento del Pil reale. La sfida dunque è quella di garantire bilanci pubblici sani, senza per questo imbrigliare le economie europee con parametri che impediscono il circolo virtuoso tra investimenti, crescita e riduzione del debito. L’idea di stabilire delle soglie di riferimento è corretta, ma i parametri di ieri non sono migliori di altri in assoluto. E basta l’evidenza dei fatti per dimostrarlo.

Se guardiamo all’andamento negli anni di quei parametri notiamo che davvero pochi paesi sono stati in grado di rispettarli. Tra l’altro, anche il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, nelle Considerazioni finali del 31 maggio scorso, ha auspicato una riforma del patto che sia semplice e trasparente e che tenga conto delle diverse condizioni economiche degli stati membri.

La temporanea interruzione degli obblighi del patto è stato un risultato condiviso che ci ha permesso di arrivare all’accordo sul Next generation Eu. Un bilancio europeo portato a 1.800 miliardi (in parte alimentato da bond per investimenti), la deroga alle regole sugli aiuti di stato, la leva monetaria alimentata dalla Bce, e infine alcune proposte per una nuova governance economica: ingredienti, questi, che smontano le critiche anche del più testardo euroscettico. In questo modo si è affermata anche l’importanza di agire uniti in modo tempestivo con tutto il potenziale dell’Unione europea, senza preclusioni ideologiche e guardando all’interesse comune europeo, non più declinato da rigide contrapposizioni interne, ma misurato in funzione della competitività globale.

Si tratta di un drastico cambio di prospettiva basato su un nuovo presupposto: la politica di bilancio deve mirare a proteggere i cittadini e a trasformare le economie, non a bloccarne la crescita attraverso regole che finiscono per zavorrare proprio quei paesi che più di altri avrebbero bisogno di rilanciarsi, e che invece paradossalmente diventano un freno anche per i più “virtuosi”.

Verso il negoziato

Allora è giusto seguire con attenzione la road map che ci porterà a cambiare le regole comuni con la guida del commissario Gentiloni, che prevede di aprire il negoziato a settembre.

Per preparare il terreno la commissione ha indicato alcuni filoni di riflessione: una valutazione differenziata delle spese di investimento per la transizione verde e digitale; l’esigenza di ridurre con gradualità il debito pubblico superando la regola di riduzione del debito pari a 1/20 all’anno dell’eccesso rispetto al parametro del 60 per cento. Altro punto, una semplificazione degli indicatori sulla sostenibilità di bilancio, anche nell’ottica di una loro maggiore intellegibilità e prevedibilità. E, da ultimo, la revisione della procedura sugli squilibri macroeconomici, dimostratasi inadeguata per promuovere la convergenza fra le economie dell’Eurozona.

Ma il vero acceleratore di questo cambio di marcia, oltre alle crisi in corso, viene dall’ambiziosa agenda europea a partire dai piani per la transizione ecologica e digitale e gli indifferibili investimenti che comportano.

Facciamo due conti in tasca alle ambizioni europee. Oggi il fabbisogno aggiuntivo di investimenti pubblici e privati necessario a raggiungere entro il 2030 gli obiettivi su green e digitale è stimato in 650 miliardi di euro l’anno. Secondo dati ufficiali della commissione, la sola transizione verde richiederebbe 520 miliardi l’anno, il doppio di quanto stimato solo due anni fa dal Green deal europeo.

A questi vanno sommati ulteriori 300 miliardi di euro necessari fino al 2030 per costruire una Unione dell’energia libera dal monofornitore russo. Senza dimenticare gli investimenti per settori strategici come la salute, la difesa e la sicurezza alimentare, oltre alla ricostruzione in Ucraina che, secondo stime di Kiev, solo per le infrastrutture richiederebbe 560 miliardi di dollari.

Non è un caso che da più parti venga rilanciata l’opzione di un remake del Next generation, anche alla luce del balzo dell’inflazione dovuto ai rincari energetici e delle materie prime. A mio avviso, la capacità fiscale comune potrebbe rafforzarsi replicando il meccanismo “Sure”, il fondo europeo da 100 miliardi usato nel periodo Covid per difendere l’occupazione. Uno strumento agile, gestito dalla commissione e usato non per ridistribuire fondi alle casse nazionali, ma per sostenere comuni progetti di ripresa e la competitività europea.

Se infatti si comparano i fondi stanziati e le capacità fiscali nazionali con le priorità indicate dai 27, è del tutto evidente che i primi non saranno sufficienti. Per questo, abbiamo bisogno di mettere in soffitta i bizantini distinguo del passato e sprigionare tutto il potenziale di crescita europeo con una governance economica riformata e strumenti innovativi. Come ha detto giustamente il presidente Draghi: «Nessun bilancio nazionale è in grado di sostenere questi sforzi da solo e nessun paese può essere lasciato indietro».

Il dibattito è aperto

Il tema è ormai sul tavolo e dopo l’estate comincerà il confronto. Il dibattito si è aperto con le proposte italo-francesi pubblicate sul Financial Times nel dicembre scorso con la firma di Mario Draghi ed Emmanuel Macron, i quali hanno sostenuto apertamente che le regole di bilancio vanno riformate in quanto opache ed eccessivamente complesse. Per dare, di contro, priorità a una spesa pubblica che guardi al futuro e rafforzi la sovranità del continente.

A questo si è affiancata la lodevole iniziativa congiunta di Spagna e Paesi Bassi sulle priorità economiche e finanziarie della Ue e sulla riforma del quadro fiscale. Le prime ipotesi contengono princìpi generali condivisibili, come la specificazione che i piani di consolidamento del debito debbano essere nazionali. Si prevede inoltre l’utilizzo di una singola regola sulla spesa e si prospetta la definizione di misure che siano di efficace applicazione, ma che lascino anche margini di discrezionalità.

Lo scenario politico europeo è favorevole: con il nuovo governo tedesco a guida del cancelliere Scholz, la rielezione di Macron in Francia, la presenza di Sanchez in Spagna e l’attuale esecutivo italiano, è possibile e auspicabile un rafforzamento delle forze riformatrici per consolidare questa nuova stagione politica europea fatta di meno austerità e più crescita. L’Europa aperta e democratica sta dimostrando di saper cambiare di fronte alle avversità. Anche per questo continua a essere la nostra casa.

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