All’alba dello scorso San Silvestro moriva, quasi novantaseienne, Joseph Ratzinger, primo papa ad avere lasciato il pontificato da oltre sei secoli, unico ad avere coesistito con il suo successore per quasi un decennio in una tranquillità relativa.

La coabitazione dei «due papi» vicini di casa in Vaticano è stata infatti turbata da incidenti mediatici: causati da intemperanze dei rispettivi sostenitori, ma facilitati dalla diversità delle figure e delle visioni – a volte radicalmente opposte – nel contesto di una crisi evidente del cattolicesimo.

Subito dopo la rinuncia Benedetto XVI, che si era trasferito a Castel Gandolfo, aveva avuto un crollo fisico ma, rientrato in Vaticano alcune settimane più tardi, si era ripreso e ha condotto una vita molto regolare e ritirata, con pochissime apparizioni pubbliche.

Soprattutto ha continuato a studiare e scrivere: «Dopo l’elezione di papa Francesco – ha ricordato nel 2022 – ho ripreso lentamente il mio lavoro teologico». Negli ultimi anni la voce si era fatta sempre più flebile, ma era compensata dalla memoria e da un’invidiabile lucidità di pensiero.

Per quasi dieci anni il papa emerito ha vissuto di fatto come un monaco, alternando preghiera e lavoro secondo l’antica formula dell’ora et labora, nel cosiddetto monastero Mater ecclesiae.

Il piccolo edificio – circondato dai giardini vaticani accanto alla grande fontana seicentesca dell’Aquilone – era utilizzato dai gesuiti al servizio dell’antica radio, poi per decisione di Giovanni Paolo II era stato adattato per ospitare appunto monache appartenenti a ordini diversi che vi si alternavano per pregare (e tra poco vi torneranno delle religiose di Buenos Aires).

All'Angelus il Pontefice ha pregato anche per le vittime degli attentati di Natale in Nigeria

Qui, partite le monache, ha trascorso l’ultimo decennio Benedetto XVI con la piccola famiglia degli anni di pontificato: il suo segretario, l’arcivescovo Georg Gänswein, e quattro laiche italiane (consacrate appartenenti a Comunione e liberazione) che governavano la casa.

Ogni giorno si aggiungeva la religiosa tedesca addetta ai testi, unica in grado di decifrare la minuta grafia di Ratzinger, che scriveva a matita con molte abbreviazioni. Sin quasi alla fine, perché il papa emerito ha concluso un ultimo testo l’antivigilia di Natale, e anche il giorno prima della morte si è fatto leggere la corrispondenza.

Alcuni densi scritti di questi anni sono raccolti nel postumo Che cos’è il cristianesimo (Mondadori), con riflessioni importanti sull’ebraismo, l’islam, l’intolleranza e la violenza: temi che si sono rivelati di drammatica attualità.

E nelle prossime settimane sarà pubblicato dalla Libreria editrice vaticana un centinaio di omelie inedite, che il papa emerito teneva in italiano la domenica mattina, celebrando – finché ha potuto – per i collaboratori più stretti e talvolta pochi ospiti.

Gli ultimi giorni

Il declino finale era iniziato alla fine di novembre, ma la vita è continuata con regolarità, sino a metà dicembre con brevi passeggiate pomeridiane nei giardini, facilitate da un deambulatore. A curare Ratzinger è sempre stato il medico personale, aiutato alla fine da due infermieri: una laica italiana e un religioso polacco, che ha vegliato le ultime ore di Benedetto XVI, allettato dal 28 dicembre.

Quella stessa mattina durante l’udienza generale papa Bergoglio, che era stato subito avvertito, aveva chiesto di pregare per il suo predecessore, visitandolo poco dopo per l’ultima volta.

Poi alla vigilia dell’Epifania, in una nebbia fredda e umida, i funerali di Ratzinger si sono svolti sul sagrato di San Pietro. Qui, da giovane cardinale, aveva concelebrato quelli – molto semplificati per volontà di Paolo VI – degli ultimi due papi italiani e, come decano del collegio cardinalizio, aveva presieduto la liturgia funebre e pronunciato un’ispirata omelia in memoria di Giovanni Paolo II.

Critiche hanno invece suscitato la celebrazione dimessa delle esequie e le poche parole riservate da papa Francesco per il predecessore, bilanciate tuttavia dal rito antichissimo e suggestivo della tumulazione nelle «grotte» della basilica vaticana. Si è così riaffacciata nei media la contrapposizione con il predecessore, che era stata contenuta a fatica negli anni precedenti e che è riesplosa per la pubblicazione, appena morto Benedetto XVI, di due libri aspramente criticati dai sostenitori di papa Francesco.

Usciti con una scelta dei tempi perfetta sul piano editoriale ma inopportuna nella logica curiale, sono entrambi d’indubbio interesse: il primo come fonte di prima mano – sia pure di parte e senza riguardi per l’ambiente vaticano, abituato a toni allusivi e a messaggi cifrati – sul pontificato di Ratzinger, il secondo perché affronta con grande franchezza «la religione nel XXI secolo», risultando quasi un ordine del giorno per i dibattiti che precederanno il conclave. Nient’altro che la verità (Piemme) s’intitola quello di Gänswein, scritto da Saverio Gaeta, e In buona fede (Solferino) l’intervista di Franca Giansoldati con il cardinale Gerhard Müller, già prefetto dell’antico Sant’Uffizio.

Poche settimane dopo, alla vigilia del decimo anniversario dell’elezione di Bergoglio, è uscito in Argentina El Pastor (poi in Italia con il titolo criptico Non sei solo, Salani) scritto da due giornalisti che lo conoscono bene, Francesca Ambrogetti e Sergio Rubín. Questo ennesimo libro intervista con il papa è infatti la continuazione ideale del precedente El Jesuita – rivelatosi efficace nella campagna per l’elezione dell’arcivescovo di Buenos Aires – ma si distingue soprattutto come rilettura autorizzata del decennio successivo al conclave e delle risposte date alle sfide che allora vennero «definite dai cardinali», come riassume nel breve prologo lo stesso Francesco.

Senza più la presenza di Benedetto, il pontificato sembra però accentuare e accelerare alcune sue tendenze caratteristiche. Si sono così registrate scelte e decisioni riformatrici nelle intenzioni ma nei fatti irrisolte e ulteriormente divisive di un cattolicesimo già da tempo attraversato da spinte centrifughe tra loro opposte: così in Germania le proposte progressiste del «cammino sinodale» sono state respinte da Roma, mentre negli Stati Uniti la stragrande maggioranza del clero giovane si dichiara conservatore.

Insanabili sono soprattutto le ferite profonde dello scandalo mondiale degli abusi, emersi in proporzioni o episodi spaventosi in Cile, Germania, Francia, Spagna, Bolivia, Portogallo. Insensibili di fronte a questa tragedia appaiono episcopati di altri paesi, come l’Italia, mentre casi come quello oscuro e tortuoso dell’abusatore Marko Rupnik – il mosaicista gesuita scomunicato, perdonato, espulso dall’ordine, accolto in una diocesi slovena – contraddicono la volontà dichiarata del papa di combattere questa piaga.

Una settimana prima di Natale, ad aumentare la confusione è arrivata una dichiarazione dell’organismo dottrinale della Santa sede, che da sei mesi è presieduto dal teologo di fiducia del papa, il cardinale argentino Víctor Manuel Fernández. Invertendo la linea recente del dicastero, il testo autorizza le benedizioni di coppie considerate irregolari dalla morale cattolica, è stato difeso con sottili distinguo – la benedizione non significa approvazione – ma viene respinto da vescovi e persino da intere conferenze episcopali.

Sul fronte interno il papa ha rafforzato il suo potere. Nella nuova legge fondamentale vaticana in vigore da giugno Francesco fa addirittura derivare l’esercizio dei suoi poteri sovrani anche sul minuscolo stato dall’essere successore di san Pietro, un’affermazione che non ha precedenti.

E a metà dicembre si è concluso con pesanti condanne il primo grado del processo noto per il coinvolgimento del cardinale Angelo Becciu e per le critiche al processo stesso, nel quale il pontefice è intervenuto con una sorta di condanna preventiva e poi con misure retroattive. Al momento sembrano dunque inascoltate le osservazioni critiche sulla giustizia vaticana consegnate tre anni fa al papa dal cardinale spagnolo Julián Herranz.

In una situazione così confusa (e dove sono venute meno l’informazione religiosa e la voce libera del Sismografo di Luis Badilla) davvero arduo è prevedere il futuro. Con un collegio cardinalizio «così “rimescolato” da tante nomine e così diverse può succedere qualsiasi cosa» ha detto il papa la scorsa estate in un’intervista. Ma più acuto era stato sette anni fa Ratzinger nelle sorprendenti Ultime conversazioni (Garzanti) con Peter Seewald: «Io non appartengo più al vecchio mondo, ma quello nuovo in realtà non è ancora incominciato».

© Riproduzione riservata