L’ex ambasciatrice presso le Nazioni unite Nikki Haley ha avuto una strada in salita contro l’ex presidente Donald Trump alle primarie repubblicane del New Hampshire. Nonostante con lei si siano schierati grandi nomi dell’economia americana, come Jamie Dimon, amministratore delegato di JPMorgan Chase.

Eppure, ci fu un grande timore di svolta oligarchica quando, circa quattordici anni fa, il 21 gennaio 2010, una sentenza della Corte Suprema, la Citizen United v. Fec, scritta da una maggioranza conservatrice che allora comprendeva anche il giudice capo John Roberts, abrogava qualsiasi limite alle donazioni politiche sia individuali che delle grandi imprese, perché, si leggeva «avrebbe limitato la libertà di parola» e quindi violato il Primo emendamento della Costituzione Americana.

Si disse che questo avrebbe aperto la possibilità a un gruppo di oligarchi di scegliere il proprio presidente. In realtà non è andata così. In nessuna elezione questa congrega di iper-ricchi ha deciso le elezioni. E non accadrà nemmeno stavolta, a cominciare dal più ricco e più influente di tutti gli abituali sostenitori di cause politiche, il miliardario del Kansas Charles Koch, magnate della chimica, che ha un patrimonio personale di 53 miliardi di dollari.

Quando a fine novembre annunciò che la sua organizzazione Americans for Prosperity, nata per sostenere candidati repubblicani antitasse e contro l’establishment, avrebbe fornito ad Haley tutto l’aiuto possibile, sembrava che i giorni di Trump come candidato favorito del campo conservatore fossero contati.

Superricchi

Il recente passato però dimostra come in realtà quella classe economica composta di superricchi possa influenzare ben poco il volere dell’elettorato. Secondo l’analisi di Kenneth Vogel del New York Times, autore del libro Big Money: 2.5 Billion Dollars, One Suspicious Vehicle, and a Pimp, uscito nel 2014, non è mai successo che il loro candidato preferito vincesse le elezioni.

A cominciare proprio dal 2012, quando a un comizio del mese di febbraio 2012 l’allora presidente dem Barack Obama affermava che «un gruppo di miliardari potrebbe comprarsi le elezioni e ciò non dovrebbe accadere». Cosa che infatti non è mai avvenuta: nel 2012 Mitt Romney era il favorito del cosiddetto 1% dei redditi più alti anche nelle donazioni e ha perso malamente contro lo stesso Obama, mentre alle primarie repubblicane del 2016 era stato l’ex governatore della Florida Jeb Bush ad avere il sostegno dei super ricchi, tanto che molte analisi della vigilia affermavano che con quel forziere Bush avrebbe avuto la vittoria in tasca.

E invece prevalse Donald Trump alle primarie, battendo a novembre un’altra candidato come Hillary Clinton che incassò diversi assegni robusti da parte di donatori come George Soros, senza però trasformare questo consenso economico in voti per raggiungere la Casa Bianca.

I risultati non arrivano

E quest’anno che succede? Nikki Haley ha dalla sua non solo i già citati Dimon e Koch, ma anche un’altra star dei superdonatori repubblicani, Ken Langone, fondatore della catena dedicata all’edilizia Home Depot, insieme al fondatore del social network LinkedIn Reid Hoffmann, normalmente un sostenitore dei democratici che però vuole fermare una seconda elezione di Donald Trump.

Solo che forse questo non è il modo giusto. Certo, guardandola razionalmente, oggi Haley rappresenta un ritorno all’antico partito reaganiano, un mix di fisco leggero, posizioni moderate sulle questioni etiche e di internazionalismo in politica estera a sostegno delle democrazie. La domanda che però bisogna porsi è: il militante repubblicano, oggi, vuole queste cose?

Risposta semplice: no. Ormai da quasi dieci anni il partito repubblicano è un’entità politica nazional-conservatrice estremamente aggressiva sulle culture wars che sposa l’isolazionismo sia in politica estera che in economia, rompendo, se è il caso, anche gli spazi di libero scambio con l’Europa, vista come una concorrente al pari degli altri.

Insomma, è un partito che Donald Trump ha contribuito a trasformare trovando terreno fertile nelle idee di due campioni dell’America First com’erano stati sia Pat Buchanan, ex direttore della comunicazione della Casa Bianca ai tempi di Reagan, sia l’ex deputato del Texas Ron Paul. Entrambi, avevano cercato di conquistare la nomination presidenziale risultando sconfitti.

Quindi appare estremamente velleitario il sostegno dato da certi miliardari ad Haley cercando di rimettere indietro le lancette dell’orologio.

Risultati concreti

Prima di lei sembrava il governatore Ron DeSantis il loro campione, eppure le posizioni dei due politici, così come i toni, sono sempre stati molto diversi. Anche qualora Haley perda nel Granite State però, il sostegno di Americans for Prosperity continuerà almeno fino al Super Tuesday di inizio marzo. E il gestore di fondi d’investimento Henry Druckenmiller ha già annunciato una raccolta fondi per la prossima settimana, senza guardare al risultato del New Hampshire.

Altri però non sono di quest’avviso, tra cui il già citato Langone, che ha detto di aspettarsi risultati concreti prima di sborsare altri soldi. Difficile dunque competere con il seguito di Donald Trump, che comunque non manca di sostenitori miliardari come il finanziere della Silicon Valley Peter Thiel e Miriam Adelson, vedova ed ereditiera del magnate del gioco d’azzardo Sheldon.

Il tycoon può contare su un flusso di denaro proveniente da un numero molto elevato di sostenitori che gli versa periodicamente anche cifre molto piccole, spinto da un battage via e-mail molto serrato dove si chiede sostegno per le cause più disparate, inclusi i numerosi processi che riguardano l’ex inquilino della Casa Bianca.

E in quel caso c’è la convinzione profonda che Trump sia l’uomo giusto, qualsiasi cosa accade. Cosa che una candidata come Haley, che punta su argomenti razionali ma poco entusiasmanti come l’eleggibilità e l’affidabilità, non può avere.

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