Con la caduta del Muro, all’Onu si pensò che le crisi potessero essere risolte con il sistema multilaterale e non tenendo conto dei rapporti di forza geopolitici. Era il pensiero del segretario generale Boutros Ghali così come quello delle grandi ong internazionali. Ci fu una generale infatuazione per il peacekeeping e per il conflict resolution che sembravano poter dirimere tutto. Ma molti stati non erano d’accordo, in primis gli Stati Uniti, come fu chiaro nel settembre del 1990 quando il presidente Bush senior pronunciò davanti la Congresso il famoso discorso sul nuovo ordine internazionale. Gli americani pensavano di avere vinto la Guerra fredda e di poter dettare le loro condizioni. Tale visione miope portò a molti errori come le guerre in Iraq o l’umiliazione della Russia: gli americani avevano promesso a Gorbaciov che nessun paese del blocco dell’est sarebbe entrato nella Nato. Sappiamo com’è andata.

Nella fase successiva ogni paese iniziò a cercare il suo posto nel nuovo scenario sempre più disordinato e ricco di opportunità. All’epoca si pensò anche che la globalizzazione economica avrebbe aggiustato tutto: la dottrina iperliberista anni Ottanta adattata al pianeta. Ma l’economia non ha mantenuto le sue promesse, creando più diseguaglianza e instabilità. Il multilateralismo divenne obsoleto: G7, Onu, G77 (i non allineati), G20 ecc.: tutto perdeva ruolo. Nemmeno le nuove forme duravano, come i Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa) o Mint (Messico, Indonesia, Nigeria e Turchia). Un segnale minaccioso è venuto dal non rinnovo degli accordi sul disarmo tra russi e americani: sono decaduti uno dopo l’altro e ne resta in vigore uno solo (lo Start II) che scade ad inizio 2021. Senza tali accordi la proliferazione continuerà, con medie potenze che cercheranno di acquisire l’arma nucleare. L’esempio della Corea del Nord ha fatto scuola: un piccolo paese povero riesce a tenere a bada le grandi potenze nucleari solo perché possiede la bomba.

L’ambizione globale della Cina

Con gli attentati del 2001 e la guerra fallimentare in Iraq del 2003, un altro fattore cruciale a cavallo del secolo è stata l’emersione della Cina come potenza globale. Il processo viene da lontano: l’inizio della mutazione cinese risale al viaggio di Deng a Singapore nel 1979, dove intuisce la possibilità offerta dal connubio tra libero mercato e sistema autoritario. Ne conseguì l’invenzione delle democrazie illiberali: il modello più in voga nel panorama geopolitico globale mentre le vecchie democrazie liberali sembrano inefficaci e in declino. Certo il percorso cinese è irto di ostacoli: piazza Tienanmen, nel 1989, marca una prima crisi. Più recentemente i disordini di Hong Kong. Domani sarà Taiwan? Un altro ostacolo per la Cina sono i colli di bottiglia dell’economia globalizzata: la Bri (Belt and road initiative) terrestre può essere strozzata da una crisi politica in Asia centrale o una guerra in medio oriente. Quella marittima può trovarsi rallentata in Africa o nella stessa Asia: basta un incidente nello stretto di Malacca da cui passano tutte le merci. Infine un impedimento per la Cina è sentirsi accerchiata nel proprio spazio marittimo senza la necessaria profondità strategica. Ecco perché mira a isole e isolette, si accorda o minaccia i vicini.

Nella sua millenaria storia la Cina non è mai stata una talassocrazia (potenza marina): deve imparare ancora molto mentre gli Usa sono l’unica talassocrazia ad accesso globale. Da tale realtà si evince l’importanza del confronto tra rimland eurasiatico (il cerchio terrestre e marittimo che lega la Cina all’Europa) e l’indopacifico (l’alleanza tra Usa, India, Australia e Giappone in funzione anticinese). Da quando la Cina è divenuta la fabbrica del mondo il ruolo chiave dell’Atlantico nel commercio mondiale è stato sostituito da quello dei due oceani orientali.

Il rimland è anche l’area dove Pechino sta piazzando la sua collana di perle: i porti che, con il loro uso duale (commerciale e militare), rappresentano i punti di appoggio dall’Asia all’Europa, attraverso i due oceani, il mar Rosso e il Mediterraneo. Può accadere che il punto terminale di tale collana possa divenire un porto italiano: il nostro governo e il parlamento ne sono consapevoli? Su tali scenari si cimentano le medie potenze. Un ruolo chiave lo ha l’Asia centrale dove si incrociano via terra Cina, Russia e Usa. Posti all’interno del cerchio, Turchia e Iran hanno ambizioni alternative. La Turchia ha ritrovato orgoglio e posizionamento politico ripercorrendo le tracce dell’antico impero Ottomano: Mediterraneo, Libia, Caucaso, Africa orientale musulmana. In quanto potenza media provvista di un buon esercito e soprattutto di una marina militare efficiente, la Turchia può giocare un ruolo come terminale sia della strategia indopacifica occidentale che di quella rimland cinese. Sta all’occidente comprendere con intelligenza come trattare con Ankara che dal 2003 ad oggi ha quadruplicato il suo Pil.

Il futuro del multilateralismo

Anche l’Iran resta indeciso tra le due opzioni: riallacciare il negoziato con l’occidente (Biden sembra intenzionato a riprendere il dialogo), oppure gettarsi nelle braccia di Pechino con cui ha firmato un accordo tecnologico e finanziario? La seconda opzione potrebbe far superare a Teheran le difficoltà dell’attuale embargo ma anche fargli perdere quel margine di manovra così ampio avuto fino ad oggi, come si è visto nella guerra di Siria. L’Iran non possiede una struttura economica tale da trarre profitto dall’inserimento nella Bri ma al contempo punta allo sbocco mediterraneo.

Accanto a tali evoluzioni si consuma il dramma geopolitico del mondo arabo. La Siria resterà a lungo sotto il controllo di Russia, Turchia, Iran. L’Iraq è dilaniato tra Iran e Usa. L’Egitto è in difficoltà e ha perso il suo ruolo guida. L’Algeria è immobile e non esce dalla lunga agonia del regime militare. Solo l’Arabia Saudita e i suoi alleati del Golfo esprimono un attivismo geopolitico di rilievo, ma si tratta di un altro mondo arabo, legato all’Occidente da sempre.

Dal canto loro gli Stati Uniti guardano al passato. «Siamo un popolo che ha in comune il futuro», disse Obama nel discorso inaugurale del 2008: parole destinate a ricomporre l’unità del paese dopo tante polemiche, atte a scongelare la separazione etno-sociale, per far uscire gli Stati Uniti dal senso di declino. Ma con Trump nel 2016 si è visto che le ferite erano tutte aperte e prevaleva un modo riluttante di guardare al mondo. Nella destra si è data molta enfasi al senso di declino del “mondo bianco”, mettendo in moto un’ansiosa ricerca di purezza identitaria. Invece di guardare oltre, gli Usa (ma anche tutto l’occidente) preferiscono discutere sul passato, dividendosi tra cancel culture e suprematismo. Una polemica che attraversa frammentandola, la classica scansione destra/sinistra.

Infine l’Europa è condizionata da una mentalità diversa: oggi gli europei non hanno pretese di egemonia globale. Di conseguenza non riescono a relazionarsi convenientemente né con la Cina (o con la Turchia, l’Iran ecc.) ma nemmeno con gli Usa preoccupati di perdere potere. Gli europei sono concentrati solo nel capire come fare a preservare le loro libertà e lo stato di diritto in un contesto di lotta di influenze e di competizione globale, come sostiene Nathalie Tocci. Non vogliamo abbassare i nostri standard: non a caso Emmanuel Macron parla continuamente di Europe protection e di lotta al separatismo comunitario. L’Unione europea deve scegliere se diventare una potenza (opzione francese), cercare un status quo nell’equidistanza tra Washington e Pechino (opzione tedesca) o adattarsi all’ombrello americano e alle sue mutevoli priorità (opzione italiana ma sostanzialmente anche britannica).

Resta da determinare quale sarà il futuro del multilaterale, cioè il nuovo ruolo delle Nazioni unite. Un reale banco di prova è certamente la pandemia: mentre gli stati si ripiegano su sé stessi, l’Onu rimane la sola speranza per molti paesi di ricevere il vaccino. La Cina potrebbe approfittare di tale disegno ma solo le Nazioni unite possono parlare a nome di tutti in termini di sicurezza umana, ambientale, sanitaria ed economica, senza essere tacciate di agende segrete o interessi di parte. Se sapranno farlo efficacemente, un mondo disordinato avrà trovato il suo nuovo punto di equilibrio.

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