Secondo un’indiscrezione verosimile, in Afghanistan la Nato considerava “accettabile” una proporzione di uno a uno tra nemici uccisi e civili vittime di “danni collaterali”. Quando la guerra sarà finita potremmo scoprire che a Gaza il rapporto è spaventoso, forse un guerriero di Hamas ogni 30 civili, forse 1 ogni 50, forse di più. Per intuirlo non è necessario fidarsi delle stime prodotte dal personale delle Nazioni unite (soltanto tra i minorenni, all’inizio del mese, risultavano 3.900 morti e 1.250 spariti, probabilmente sepolti sotto le macerie, lì dove nessuno potrà cercarli). Basta dare un’occhiata alle immagini satellitari, ai cerchi lunari che prima erano agglomerati di palazzi e adesso sono poltiglia grigia, per rendersi conto. Raccomandazioni americane, appelli di vertici Onu, moniti di organizzazioni internazionali: nulla finora ha indotto il governo israeliano a limitare la strage. I suoi generali spiegano la spettacolare incongruenza tra i mezzi (il bombardamento d’una popolazione che per quattro quinti subisce malvolentieri la dittatura di Hamas) e il fine (la liquidazione di Hamas e la liberazione degli ostaggi) con due motivazioni così esili da fare temere che venga taciuto un indicibile. Si vuole innanzitutto che la responsabilità dei civili uccisi ricada interamente sul nemico: si fa scudo della popolazione. Ma questa giustificazione suona come il ragionamento degli ipocriti che assolvono i massacri infami compiuti da Hamas spacciandoli per comprensibile reazione alle violenze inflitte ai palestinesi.

Si aggiunge che gli abitanti delle zone colpite erano stati preavvertiti, dovevano andarsene prima dei bombardamenti. Ma proviamo a metterci nei panni dei palestinesi di Jabalia, ex campo profughi creato dagli sfollati di due guerre arabo-israeliane, in questi giorni colpito con bombe da 900 chili che spazzano via tutto quel che incontrano in un raggio di 350 metri. Per chi non ha mai dimenticato la casa persa nel 1948 non è facile abbandonare una perfino misera proprietà e accamparsi in altre zone della Striscia, peraltro anch’esse sotto bombardamento; tanto più perché la destinazione finale di chi fugge potrebbe essere il Sinai, l’esilio definitivo. Così molti, sapessero o no dei tunnel scavati da Hamas sotto l’abitato, sono morti dentro abitazioni così fragili che non avrebbero resistito neppure a una bomba a mano. Però un capetto di Hamas che si nascondeva nel sottosuolo è stato eliminato, si rallegra il comando israeliano.

Amalek

Tutto questo pare così irragionevole da lasciar supporre dell’altro. Un piano nascosto, per esempio: creare una crisi umanitaria tanto grave da obbligare gli abitanti di Gaza a cercare scampo in Egitto. E al contempo lasciare che gang di “coloni” ammazzino a casaccio nella Cisgiordania, come sta avvenendo, in modo da spingere quei palestinesi verso la Giordania. Insomma, svuotare i Territori occupati, per annetterseli definitivamente. Oggi neppure a Washington hanno capito se Netanyahu abbia un progetto meno rudimentale che proclamarsi il condottiero che sterminò Hamas. Però questo è chiaro: la straordinaria disumanità della guerra rispecchia i combattenti. Hamas l’ha inaugurata massacrando inermi con la viltà sovreccitata dei pogrom. Israele ci sta mettendo l’ideologia della sua destra, il modo in cui quella intende la storia e l’identità nazionale. Netanyahu ne ha offerto un saggio nel messaggio alla nazione del 28 ottobre scorso. Azzerando tre millenni, il premier ha riesumato Giuda Maccabeo e Bar Kochba per descrivere una linea di guerrieri ebrei che comincia nella notte dei tempi e finisce con i soldati israeliani entrati in questi giorni a Gaza. E poi, di nuovo squarciando la dimensione temporale, il premier ha detto agli israeliani: «Ricordate quel che vi fece Amalek».

Era una citazione dal Deuteronomio: «Ricordati di quel che vi fece Amalek», disse il profeta Samuele al re Saul. Gli Amalekiti avevano attaccato a tradimento il convoglio degli Ebrei diretti alla Terra di Canaan, adesso Dio reclamava che fossero puniti. Il profeta così rappresentò al re la volontà del Signore: «Va dunque e colpisci Amalek e vota allo sterminio quanto gli appartiene, non lasciarti prendere da compassione per lui, ma uccidi uomini e donne, bambini e lattanti, buoi e pecore, cammelli e asini». Ecco dunque il tempo raccorciarsi e Bibi-Samuele ripetere l’ordine divino, «Ricordate quel che vi fece Amalek», per concludere così: «Noi ricordiamo e combattiamo».

Perché Netanyahu va a cercare nella Torah il senso di quel che sta avvenendo tremila anni dopo a Gaza? E soprattutto, perché, tra i tanti paradigmi che poteva trarre dalle Scritture, ha scelto proprio il massacro degli Amalekiti? Certo non intendeva enunciare il proposito di sterminare i palestinesi. Ma se il primo ministro fa proprio il messaggio d’un antico profeta, non può sorprendere che l’esercito israeliano si comporti come richiesto a re Saul, «Non lasciarti prendere dalla compassione».

Ovviamente Bibi-Samuele non rappresenta il giudaismo, per capirlo basta pensare alla statura etica e intellettuale d’un grande italiano, il rabbino Elio Toaff, che fu fondamentale nello svelenire dell’antisemitismo la vasta area del bigottismo cattolico. Ma certo il premier è in sintonia con la destra religiosa che appoggia il suo governo e con i movimenti fondamentalisti che la ispirano. Questi ultimi – nota la Fondazione Oasis, un centro-studi internazionale fondato dal cardinale Scola – «hanno da tempo rotto il cordone di sicurezza che circondava alcune pagine dell’Antico Testamento, con il risultato che al jihad islamico torna ora a contrapporsi lo herem (la guerra di sterminio) veterotestamentario. È questo uno degli aspetti più preoccupanti della guerra in corso».

Netanyahu non è un fondamentalista, forse neppure un credente. Semmai usa la religione nel modo in cui la usa quella nuova ideologia globale che una scuola di pensiero chiama “civilizationism” (a coniare il termine fu il sociologo Rogers Brubaker, nel 2017). Il “civilizationist” non crede nell’universalismo liberale, cui oppone l’idea di un mondo frammentato in distinti sistemi di valori e di comportamenti plasmati dalle religioni. Nella versione aggressiva, si presenta come il difensore di una civiltà immaginaria radicata in una storia altrettanto immaginaria, baluardo ultimo contro l’incalzare della barbarie circonvicina.

Difendere l’ordine

Da qui il carnevale di questi ultimi anni, con la sfilata di carri allegorici fabbricati ciascuno secondo i materiali offerti dal passato e dalle rispettive religioni: il “Mondo russo” di Putin; la “civiltà giudaico-cristiana” di Trump e di altre destre occidentali; il “cristianismo” americano; il panislamismo degli ayatollah, di Hamas, di Hezbollah e di altri oltranzismi musulmani; l’Hindutva di Nareendra Modi; e l’antica civiltà ebraica, presunto argine delle democrazie contro l’imperialismo islamico, che ispira Netanyahu e il suo Likud.

Va da sé che il “civilizationist” è sordo al vocabolario universalista in uso presso gli stati di diritto liberali. Noi crediamo che “crimini di guerra” sia un marchio d’infamia ovunque. Ma Putin se ne infischia e bombarda le città ucraine. Allo stesso modo il governo Netanyahu è indifferente all’accusa di mantenere un apartheid nei Territori, alle cacce al palestinese nel West Bank sotto gli occhi ciechi dell’esercito, ai richiami di Washington per le mega bombe che piovono su Gaza. Ancora: la stima di cui gode Hamas in segmenti islamici non è stata scalfita dall’infamia dei massacri. E Trump? Minacciò d’arresto gli inquirenti della Corte penale internazionale se avessero messo piede negli Usa. La destra israeliana farà il possibile per fargli vincere le presidenziali del 2024.

Se questo è lo sfondo, allora la guerra di Gaza è il test per verificare la residua vitalità dello stremato ordine internazionale liberale. Gli Stati Uniti di Biden, che oggi ne sono il garante ultimo, possono sperare che l’esercito israeliano liberi presto gli ostaggi, chiuda in fretta la partita con Hamas e accetti una qualche soluzione saggia per la Striscia. Ma se la guerra si protraesse, se gli ostaggi e i palestinesi diventassero il pasto umano di due Assoluti, allora Gaza offrirebbe occasioni e pretesti per mobilitare ovunque gli adepti delle civiltà. I fondamentalisti musulmani sotto i vessilli neri della santa alleanza islamica, Netanyahu e gli amici occidentali con le bandiere “giudaico-cristiane” aspettando Trump, e in mezzo un occidente fiacco, incerto, disunito: l’ordine internazionale liberale rischierebbe il disfacimento. Gronda doppiezze, ipocrisie, falsità, pretese egemoniche, cinismi imperiali, le meschinità che gli hanno procurato una sequenza di fallimenti. Ma, bene o male, ha permesso allo stato di diritto liberale di consolidarsi in una dimensione mai raggiunta nella storia. Vale la pena di difenderlo da nemici e finti amici, in Medio Oriente, in Europa, in Italia.


 

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