Alla Cina non solo deve essere impedito di sfornare i microchip più avanzati che alimentano l’intelligenza artificiale, ma va anche bloccata la sua avanzata nella produzione di quelli cosiddetti legacy (tradizionali), installati un po’ ovunque, nelle automobili come negli elettrodomestici e negli armamenti.

Alla vigilia di Natale l’amministrazione Biden ha annunciato l’apertura di un’inchiesta che potrebbe portare all’aumento dei dazi o a restrizioni all’import per questi microprocessori in base alla Section 301, che consente di contrastare determinate importazioni se in violazione di trattati o se altrimenti danneggiano gli scambi degli Stati Uniti.

È la stessa norma che ha permesso a Donald Trump di scatenare la sua guerra commerciale, imponendo nel 2018-2019 dazi del 25 per cento su 370 miliardi di dollari di beni in arrivo dalla Cina. Secondo i dati del dipartimento del Commercio, oltre due terzi dei prodotti delle compagnie Usa utilizzano microchip made in China.

«Questa indagine sottolinea l’impegno dell’amministrazione Biden-Harris a difesa dei lavoratori e delle imprese americane, aumentando la resilienza delle catene di approvvigionamento critiche e sostenendo gli investimenti senza precedenti effettuati in questo settore», ha dichiarato la rappresentante del Commercio Usa, Katherine Tai. Pechino è accusata di voler dominare i mercati nazionali e globali nel settore dei semiconduttori. Secondo Washington, gli atti, le politiche e le pratiche della Cina minacciano ulteriormente di danneggiare gli Stati Uniti e le economie alleate e di indebolire la sicurezza economica degli Stati Uniti.

Il ministero del commercio di Pechino ha fatto sapere che adotterà «tutte le misure necessarie a tutela dei diritti e degli interessi della Cina». Mentre gli stessi produttori appaiono scettici sugli esiti di un procedimento che potrebbe terremotare il mercato globale dei semiconduttori e, più in generale, quello dei prodotti tecnologici. «I leader di Washington dovrebbero anche perseguire un’agenda proattiva che rafforzi la nostra capacità di produzione nazionale e crei una nuova domanda di chip made in America», ha dichiarato John Neuffer, a capo della Semiconductor Industry Association. Ovvero: per riportare negli Usa (che nel 1990 controllavano il 37 del mercato globale, sceso al 10 per cento nel 2022) la produzione di microchip competitivi serviranno incentivi governativi.

Costi e benefici

Secondo i dati diffusi dall’amministrazione generale delle dogane, le esportazioni cinesi di circuiti integrati nei primi undici mesi di quest’anno hanno superato per la prima volta 1.000 miliardi di yuan (137 miliardi di dollari), in aumento del 20,3 per cento rispetto allo stesso periodo del 2023.

Da quando la pandemia di Covid-19 ha interrotto la fornitura di semiconduttori – bloccando, tra l’altro, anche la produzione di veicoli e apparecchiature mediche negli Stati Uniti – Washington ha iniziato a ricostruire una catena di fornitura nazionale di semiconduttori, con circa 52,7 miliardi di dollari di sussidi del CHIPS and Science Act per microchip, ricerca e lo sviluppo e relativa forza lavoro.

Ma la pandemia ha favorito l’affermarsi di una ideologia del “de-risking” che vede la Cina come un pericolo. Secondo questa logica, nei settori industriali strategici la globalizzazione deve cedere il passo alla “sicurezza” e le relative filiere vanno accorciate e riportate in paesi amici.

Il procedimento avviato dal governo uscente sarà portato avanti da Trump o il prossimo presidente lo sacrificherà come una pedina di scambio, per fare pressioni sulla Cina per ridurre il deficit commerciale Usa? L’uomo scelto dal presidente eletto come rappresentante del Commercio, Jamieson Greer, è un falco anti Cina che sostiene che in seguito a una riduzione del commercio tra le prime due economie del pianeta il costo (l’inflazione) pagata dai consumatori statunitensi nel breve termine sarebbe compensato dal beneficio di rendere gli Stati Uniti più forti nel lungo periodo.

Contenimento

Come quello dei veicoli elettrici (per i quali negli Usa sono state imposte tariffe del 100 per cento), quello dei micro processori è uno dei settori industriali strategici a cui Pechino ha accordato priorità (e finanziamenti a pioggia), secondo quanto prescritto da “Made in China 2025”, varato nel 2015 dal Consiglio di stato. Da quando è stato lanciato quel piano la Cina ha quasi raddoppiato la sua produzione di chip legacy e potrebbe sfiorare la metà del mercato globale nel 2030.

La mossa dell’amministrazione Biden va ben oltre la formula fin qui adottata per le politiche commerciali nei confronti della Cina, quella del “cortile stretto con recinto alto”. Infatti, mentre finora Washington si era limitata a vietare alle aziende Usa l’export verso la Cina degli acceleratori grafici e dei processori più performanti, e aveva convinto Olanda e Giappone a non vendere alla Cina i macchinari per produrre i microchip più sofisticati, adesso punta a ostacolare l’avanzata della Cina nel più ampio mercato dei microchip legacy.

Insomma è chiaro che, oltre che tentare di rilanciare la manifattura negli Usa, si punta al contenimento tecnologico della Cina, identificata tanto dal presidente uscente quanto da quello entrante come avversario numero uno degli Usa.

Per il settore hi-tech le implicazioni dell’inchiesta lanciata da Washington sono potenzialmente enormi: le compagnie che acquistano chip legacy dalla Cina potrebbero dover affrontare aumenti dei costi, interruzioni della fornitura ed essere sottoposte a controlli governativi.

Inoltre, la spinta alla diversificazione delle catene di approvvigionamento e ad adottare chip prodotti negli Stati Uniti può presentare un’opportunità, ma anche porre colossali sfide logistiche, in particolare per quelle industrie che fanno affidamento su componenti sensibili ai costi. Tuttavia è ormai chiaro che, nella nuova èra della globalizzazione ristretta, la “sicurezza” viene prima dell’efficienza.

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