Christian Carlassare sta guarendo dalle ferite dopo i quattro colpi di kalashnikov sparati alle gambe in un agguato avvenuto nella notte tra domenica e lunedì scorso. Il giovane vescovo vicentino di Rumbek, cittadina nel Sud Sudan racconta la sua esperienza in un’intervista rilasciata al Corriere della Sera.

Le ferite riportate hanno lacerato i muscoli ma sono salvi tendine e ossa. «Per miracolo un giovane volontario aveva appena scoperto di avere il mio stesso sangue, A Rh-negativo, raro e introvabile in Africa. Senza la sua donazione non so se ce l’avrei fatta» racconta padre Carlassare.

Le indagini delle autorità locali hanno portato al fermo di alcuni esponenti legati alla chiesa in un cui serve il prete italiano che è ancora molto cauto: «Non correrei troppo» dice. «Io posso solo perdonare. Se emergerà qualcosa di sgradevole, servirà a rinsaldare la mia comunità. Ieri, mentre mi portavano all’aeroporto, la gente è scesa in strada per salutarmi, manifestandomi il suo amore nonostante sia a Rumbek da così pochi giorni».

I ricordi dell’agguato per mano dei due giovani sono ancora vivi nella sua memoria: «Quando hanno forzato la mia porta sono uscito e ho cercato di farli ragionare, di capire quali ragioni li spingessero a un atto così violento, se cercassero qualcosa in particolare. Ho abbastanza esperienza per sapere che in simili circostanze devi reagire con fermezza ma senza prenderli di petto. Loro però sfuggivano alle mie parole, non hanno aperto bocca, hanno solo fatto fuoco con i kalashnikov».

Dopo l’aggressione i soccorsi: «Sono arrivati tre sacerdoti, credevano fossi morto mentre invece ero vigile, solo che mi sforzavo di parlare e non usciva la voce. Lì sì che mi si sono affastellati nella testa i tanti momenti vissuti in Africa, in positivo, però: capivo che mi avevano reso più forte, che ce l’avrei fatta anche questa volta. Sono riuscito a parlare solo quando sono arrivati i seminaristi, loro mi hanno raccolto da terra e mi hanno portato all’ospedale del Cuamm».

Christian Carlassare è ancora in convalescenza ma si dice pronto a tornare a Rumbek. «La mia gente sta soffrendo più di me per quanto è accaduto. Ripartiremo insieme, più forti e, spero, più saggi di prima. Quando ho accettato la nomina a vescovo sapevo di poter correre qualche rischio, ma l’idea di poter essere vittima di un agguato premeditato non mi ha mai sfiorato. Ora che ci penso è stata una mia leggerezza: questa terra ha subito tale e tanta violenza da essersi dimenticata il valore del dialogo. La gente conosce l’amore, ma ha bisogno di essere educata alla pace. Mentre mi portavano all’aeroporto, una donna, per strada, ha gridato: “Torna padre, se devi morire, moriremo insieme”».

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