Il premier ungherese, Viktor Orbán, ha paragonato l’Unione europea all’Unione sovietica. Il ministro della Giustizia polacco, Zbigniew Ziobro, ha optato per un confronto tra la Germania di oggi e quella nazista. I proclami possono essere un bluff, ma nei fatti Varsavia e Budapest si mostrano disposte a tutto pur di svincolare i fondi europei dal rispetto dei principi democratici. Da mesi minacciano di fermare il piano di ristoro attrezzato dall’Ue per far fronte alla crisi da Covid-19 se l’Europa insiste a condizionare i soldi alla rule of law, lo stato di diritto. Visto che l’idea della condizionalità va avanti, i due paesi cominciano il boicottaggio e tengono in ostaggio tutti.

Il primo veto

Oggi al Comitato dei rappresentanti permanenti (Coreper) c’è stato il primo veto di Polonia e Ungheria, che ha il potere quantomeno di ritardare gli aiuti. Il Coreper non ha il potere di prendere decisioni vincolanti ma ha un compito istruttorio che si rivela comunque determinante: prepara gli incontri tra i ministri e quindi articola il dibattito che si terrà in seno al Consiglio dell’Ue. Ieri il Coreper si è espresso su tre punti; un consenso pieno avrebbe reso l’approvazione dei governi a portata di mano. Il primo punto era il vincolo dei fondi europei allo stato di diritto: il 5 novembre, la presidenza tedesca e l’Europarlamento hanno trovato un accordo sul nesso tra erogazione dei soldi e rule of law (equilibrio fra poteri, indipendenza dei giudici dall’esecutivo, pluralismo dei media e così via), che ora deve essere approvato dal Consiglio. Varsavia e Budapest si sono espresse contro, ma non hanno potuto bloccare il dossier: non era necessario un accordo unanime. Dunque si sono scagliate su un punto che richiedeva l’unanimità, non raggiunta per causa loro: l’avvio della procedura scritta sulla decisione sulle risorse proprie. Questo punto è fondamentale perché i paesi possano ricevere i soldi del Next Generation Eu. Il sistema delle risorse proprie è quello che consente alla Commissione di andare sui mercati ed emettere debito, finanziando così gli aiuti. Polonia e Ungheria da mesi minacciano di votare contro nei parlamenti nazionali. Stanno dando un assaggio con questo veto.

Cosa succede ora

Il blocco messo in atto è uno schiaffo alla Germania, fautrice della mediazione sullo stato di diritto. A luglio, quando il Consiglio europeo ha trovato un accordo sul piano di ristoro, pur di chiudere (serviva l’unanimità) i governi – anche Berlino – acconsentirono a rimanere vaghi sulla rule of law. Ma l’Europarlamento ha tenuto duro e la presidenza tedesca si è assunta la responsabilità di un accordo; sperava di non essere sconfessata. Il comportamento di polacchi e ungheresi può comportare effetti per tutti: se non il blocco degli aiuti, quantomeno la dilazione. Serve che domani i ministri degli Affari europei, riuniti in Consiglio, procedano compatti: il Coreper infatti istruisce i lavori, ma volendo i governi possono superare l’impasse. Se lo stallo domani dovesse proseguire, entreranno in scena i capi di governo nella videoconferenza di giovedì, che sarà introdotta da Angela Merkel: vuole evitare il collasso del piano. Una presa di posizione determinata di tutti gli altri governi può ribaltare, se non formalmente almeno politicamente, le minacce dell’Ungheria, il cui premier verga lettere ricattatorie alla cancelliera, ai presidenti di Commissione e Consiglio, e dice: «O siamo d’accordo su tutto, o tutto salta».

E pure quelle della Polonia, i cui toni più aspri arrivano non a caso da Ziobro, che nella coalizione di governo rappresenta la linea dura. Dopotutto, la Polonia è il principale beneficiario del bilancio europeo, l’Ungheria il principale beneficiario pro capite del piano di ristoro, ed entrambi hanno bisogno dei soldi europei, ancor più in questi mesi di crisi. La Germania lo sa e contava proprio su questo per chiudere il piano: sperava che quello di Budapest e Varsavia fosse un bluff. Magari non sarà così, ma il tal caso la responsabilità del fallimento ricadrà su tutti i governi e sulla presidenza tedesca.

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