Ci vorrà tempo per rispondere ai tanti interrogativi sulle dinamiche e i mandanti dell’attacco armato che poco più di una settimana fa ha insanguinato il nord del Kosovo. Ma i primi elementi emersi dalle indagini e la reazione sciovinista di Belgrado lasciano poco spazio all’immaginazione e disegnano uno scenario preoccupante per la sicurezza del newborn dei Balcani, sorto dalle ceneri delle guerre degli anni Novanta e dal sangue della pulizia etnica voluta dall’allora presidente della Jugoslavia, Slobodan Milosevic. Ed è proprio con le tattiche del nazionalista serbo che gli eventi di questi giorni hanno un’inquietante assonanza. L’attentato, che ha portato all’uccisione di un agente della polizia del Kosovo, oltre che di quattro assalitori, non solo era pianificato, ma secondo quanto riferito dal premier del Kosovo, Albin Kurti, era parte di un piano più ampio per annettere il nord del Kosovo, a maggioranza serba, attraverso un attacco coordinato da 37 posizioni diverse. Obiettivo dell’operazione, per Kurti, era di aprire un corridoio verso la Serbia che avrebbe permesso l’afflusso di truppe e armi.

Che l’operazione fosse sofisticata e ben pianificata, è anche deducibile dall’ingente arsenale di armi rinvenuto dagli inquirenti. A corroborare la tesi del diretto coinvolgimento di Belgrado nell’attacco, ci sarebbero anche dei video, diffusi dal primo ministro, che dimostrerebbero come i gruppi paramilitari che hanno agito nel villaggio di Banjska si fossero esercitati in due basi militari serbe, a Pasuljanske livade, Serbia orientale, e a Kopaonik, al confine con il Kosovo. Le indagini poi hanno confermato le indiscrezioni circolate all’indomani dell’attacco armato, il ruolo nell’operazione del controverso uomo d’affari serbo-kosovaro, Milan Radoicic, che ha ammesso, tramite il suo legale, di aver partecipato all’attacco armato. Il reo confesso, già sanzionato da Washington e Londra, ha scagionato Belgrado, sostenendo di aver agito in autonomia e ha annunciato le dimissioni dalla vice presidenza della Lista Serba, il principale partito dei serbi in Kosovo, collegato a doppio filo con Belgrado.

Parole, quelle di Radoicic, destinate a cadere nel vuoto. Sembra sempre meno plausibile, a voler usare un eufemismo, la tesi del presidente serbo, Aleksandar Vucic, che fin dalle prime ore si è detto estraneo alla vicenda. La sua posizione nei confronti dell’occidente, che fino all’attacco armato sembrava intoccabile, inizia ora a vacillare. E per uscire dall’angolo, il presidente serbo, cresciuto alla scuola di Milosevic, è ricorso al suo repertorio classico: abbaiare, spaventare e riportarsi così su una posizione se non di credibilità, almeno di forza.

Recriminazioni nazionaliste

È così che la prima foto ufficiale all’indomani dell’attacco è stata quella dell’incontro tra Vucic e l’ambasciatore russo a Belgrado, Aleksandr Botsan-Kharchenko. Poi, il collaudato ex ministro dell’informazione ai tempi di Milosevic ha alzato la temperatura dei media, posti per la quasi totalità sotto il suo controllo, dipingendo come «martiri del terrore di Kurti» gli assalitori serbi uccisi negli scontri a fuoco con la polizia del Kosovo. Fino all’epilogo di venerdì, quando gli Stati Uniti per bocca del portavoce del Consiglio per la sicurezza nazionale Usa, John Kirby, hanno denunciato un dispiegamento «senza precedenti» alla frontiera con il Kosovo di carri armati, artiglieria e unità di fanteria, intimando a Belgrado di «ritirare immediatamente» tali forze.

Su questo sfondo, la Nato ha deciso il dispiegamento di truppe aggiuntive in Kosovo «per far fronte alla situazione attuale» dopo aver già rafforzato la sua presenza lo scorso maggio. A rimpolpare le file delle truppe Nato saranno militari britannici. «Il Regno Unito - ha fatto sapere Dylan White, portavoce dell’Alleanza atlantica - sta schierando circa 200 soldati del 1° Battaglione del reggimento reale della Principessa di Galles per unirsi a un contingente britannico di 400 uomini già dispiegato in Kosovo, e ulteriori rinforzi seguiranno da altri alleati». Se la strategia della paura di Vucic farà presa su Bruxelles e Washington si vedrà col tempo. Intanto è bastata a far tremare tutta la regione dei Balcani soprattutto nel loro ventre molle, il Kosovo e la Bosnia-Erzegovina. Perché quel che sembra emergere è che Vucic non abbia abbandonato il suo piano originario: chiudere la partita del Kosovo, prendendosi il nord, magari in cambio della valle di Presevo, territorio serbo a maggioranza albanese.

Un piano che aveva ed ha tuttora dei sostenitori tra gli Stati dell’Ue e parti dell’establishment americano, e che solo pochi anni fa era stato a un passo dal divenire realtà. Un piano che aveva incontrato la ferrea opposizione dell’ex cancelliera tedesca, Angela Merkel, ben consapevole della pericolosità di un simile piano che riaprirebbe un vaso di Pandora di recriminazioni nazionaliste nella regione. Un assist a Vladimir Putin che l’occidente non può permettersi.  

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