«La nostra storia è un dramma che si svolge non al ritmo delle musiche di Ennio Morricone, ma sotto il suono di sirene, missili ed esplosioni». I sottotitoli scorrono sotto il volto stanco e corrucciato del presidente ucraino Volodymyr Zelensky. Alle sue spalle una strada buia illuminata da un lampione, in sottofondo le note struggenti di un pianoforte. «Arrivati ai titoli di coda la gente fa solo due cose – continua Zelensky – Si alza e se ne va. Di fronte alle prossime immagini solo la prima azione dovrebbe essere adottata». La sua immagine scompare, sostituita da uno schermo nero su cui scorrono, uno dopo l’altro, come al termine di un film, i nomi delle vittime del conflitto.

Così Zelensky si è rivolto lo scorso primo settembre al pubblico selezionato del festival di Venezia, uno dei numerosi ed emotivamente potenti messaggi che nell’ultimo anno ha inviato a mezzo mondo. Dopo lunghe trattative, è stato deciso che all’ultima serata del festival di Sanremo, Zelensky invierà un messaggio scritto, che sarà letto dal conduttore Amadeus. Un compromesso, dopo le polemiche sulla sua partecipazione, ma che forse lo priverà di uno dei punti forti della sua capacità di persuasione.

Il contenuto

Ex attore, circondato da uno staff di registi, sceneggiatori e produttori televisivi, Zelensky si è rivelato uno dei principali asset della propaganda ucraina sulla scena nazionale e internazionale. Il suo è un caso che gli scienziati politici e della comunicazione hanno già iniziato a studiare.

In poco meno di un anno di guerra ha parlato in due dozzine di parlamenti, dal Giappone agli Stati Uniti, è intervenuto a incontri internazionali e riunioni di affaristi e imprenditori. Prima di Sanremo, ha parlato ai Grammys, ai Golden Globe, al festival del cinema di Venezia e a quello di Cannes. Quasi ovunque le sue parole sono state accolte da applausi e standing ovation. 

Che il suo pubblico siano parlamentari o attori e registi, la tecnica che utilizza nei suoi discorsi è sostanzialmente la stessa. Primo, creare una connessione con la propria audience, ricordando qualcosa che le sia familiare, che possibilmente sia emotivamente coinvolgente o che faccia sentire l’audience orgogliosa.

Al pubblico di cinefili italiani del festival Venezia, ad esempio, ha ricordato il compositore Ennio Morricone e ha raccontato la guerra con metafore cinematografiche («un horror che non dura 120 minuti, ma 189 giorni»). Di fronte al parlamento francese ha fatto suo il motto repubblicano «liberté, egalité, fraternité», a Washington ha parlato dell’11 settembre, in Giappone del rischio di incidenti nucleari.

La creazione di un legame con l’audience serve a rendere più efficace la richiesta di aiuto al suo paese. Zelensky si mostra sempre grato alla sua audience e quasi mai trascura di menzionare quanto l’aiuto degli alleati si stato fondamentale ad aiutare il suo paese.

Ma accanto all’empatia e alla gratitudine, Zelensky è abile a far leva anche su un altro sentimento: la vergogna. A Cannes e Venezia, Zelensky ha accennato sapientemente alla superficialità del mondo dello spettacolo contrastandolo con la necessità di «alzarsi in piedi» di fronte ai mali della guerra. Alla Camera dei deputati a Roma ha redarguito i parlamentari chiedendo loro di non essere più «il luogo di villeggiatura dei criminali di guerra».

Il contenitore

I discorsi di Zelensky sono scritti con attenzione (uno degli autori più spesso citati è l'ex giornalista Dmytro Lytvyn) così come è attentate costruito tutto ciò che hanno intorno. Fin dal primo giorno di guerra, Zelensky si mostra in pubblico esclusivamente in abiti di foggia militare: non le divise con medaglie e mostrine luccicanti dei grandi dittatori del 900, ma semplici tenute di fatica. Magliette verdi con il logo delle forze armate ucraine, felpe in tessuti tecnici e pantaloni con tasconi. Gli stessi vestiti che i soldati ucraini indossano al fronte.

La sua barba, che appare sempre incolta di qualche giorno, il suo volto quasi sempre teso e stanco, la sua voce naturalmente profonda, contribuiscono tutti a rendere efficaci le sue performance. Sia quando parla in ucraino, che le rare volte in cui sceglie di usare il suo ottimo inglese.

Buchi nell’aqua

Non sempre però questo mix ha funzionato. A volte il tentativo di creare un legame impatico e il conseguente “ricatto morale” genera un contraccolpo imprevisto. L’incidente più grave si è verificato in Israele, quando Zelensky e il suo staff sono andati probabilmente un po’ oltre nel cercare di tracciare un parallelo tra l’invasione ucraina e la Shoah, suscitando diverse reazioni indignate tra i parlamentari israeliani. 

Le polemiche intorno all’ospitata a Sanremo non sono le prime da parte di organizzatori timorosi che l’impatto dei suoi discorsi renda i loro eventi troppo politici. Un anno fa, con l’aiuto dell’attrice di origine ucraina Mila Kunis, Zelensky aveva provato a ottenere uno spazio alla cerimonia degli Oscar, ma l’Academy ha preferito concedere alla causa ucraina un minuto di silenzio e poi un messaggio che invitava a donare aiuti umanitari al paese.

Esperti e analisti sono in larga parte convinti che questa particolare forma di diplomazia si sia rivelato un asset fondamentale per l’Ucraina e uno degli elementi decisivi nel creare quella “pressione dal basso” che in molti paesi ha spostando l’ago della bilancio verso un più convinto sostegno al paese.

Ma un conflitto sempre più lungo, le sue conseguenze economiche e la stanchezza generata da qualunque ciclo di notizie che dura troppo a lungo, stanno mettendo alla prova anche il talento di Zelensky. Come le polemiche su Sanremo dimostrano, l’inflazione della sua immagine, è forse il pericolo principale per il presidente ucraino, che nemmeno il suo talento può eliminare.

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