Per questa volta forse riusciremo a scamparla. La crisi finanziaria che si è affacciata la scorsa settimana sui nostri notiziari sembra poter evitare gli effetti disastrosi delle precedenti. E tuttavia i meccanismi che l’hanno generata sono rimasti per lo più oscuri a chi non opera nel mercato, pur essendo potenzialmente non meno gravosi di un aumento dei tassi di interesse, di una riforma delle pensioni o del taglio ai sussidi sociali. Decisioni che invece sentiamo molto vicine e per le quali infatti siamo pronti a scendere in piazza.

Sembra essere destino della nostra società quello di doversi misurare ciclicamente con conseguenze di logiche economiche che troppo spesso non comprendiamo. Il che ci porta a considerare la finanza quasi come una divinità misteriosa, i cui capricci devono essere accolti supinamente dalla politica.

Avviene da oltre un secolo, da quando nella liaison tra gli ideali di un popolo e i soldi necessari a realizzarli si è inserita una terza figura: il progresso scientifico. Intendiamoci, la conoscenza tecnica ha permesso al nostro mondo di prosperare, ma si è anche evoluta in mille rivoli iperspecializzati, evitando di guardare alla società in modo organico in favore della perpetua ricerca dell’efficienza. E per un sapere di questo tipo, tanto più razionale quanto segmentato, una società individualista come la nostra ha trovato il partner ideale: l’economia. Il nostro capitalismo ha bisogno dei prodotti della scienza quanto questa dei suoi finanziamenti.

Terzo incomodo

Ma ciò che rende questo matrimonio tra scienza ed economia alla lunga insostenibile è che ad esso la politica non è invitata. L’impossibilità di comprendere appieno i processi finanziari non è dovuto soltanto al loro tecnicismo, ma proprio all’indeterminatezza che li connota: alla mancanza di una progettualità chiara e comune che è invece compito della politica. Senza di essa, gli effetti delle loro evoluzioni non possono essere previsti perché non sono legati a una logica di società, ma a finalità individuali distinte e spesso discordi. Ed è così che finiscono per diventare pericolosi.

Un impasse evidente sin dal principio, ma divenuta urgente da risolvere oggi, immaginando un nuovo sistema d’alleanze: già Max Weber affermava la necessità per la politica di integrarsi con la scienza, e per quest’ultima di realizzare come il proprio sforzo intellettuale operi sempre dentro la società e nei riguardi dei bisogni di essa. Solo se si riconoscerà un interesse in comune, un rapporto reale tra scienza e politica si creerà davvero una controparte alla finanza e all’economia tutta, non per limitarne lo sviluppo, ma per avanzare proposte che rendano il suo potere meno indefinito.

Questa alleanza si è talvolta già saputa realizzare, anche nella storia recente. Due esempi su tutti: grazie a essa, gli Stati Uniti hanno vinto la corsa allo spazio e il mondo la lotta al Covid. E, tuttavia, questo connubio è ancora lontano dal diventare sistemico, cosicché sembra più probabile che sarà di nuovo la ricerca privata a portarci su Marte e incassarne i dividendi.

Pensare che proprio Weber identificava come «padronanza del mondo» l’idea di governare la natura attraverso la tecnica per arrivare ad un fine di libertà e uguaglianza per l’umanità. Oggi è ancora più evidente che se «la padronanza» viene gestita solo dall’unione di sapere scientifico e potenza economica il risultato rischia di essere vago, incoerente e non necessariamente sinonimo di progresso. Per realizzarla invece occorre un progetto che rimetta l’uomo al centro. E questo non può che essere politico. Altrimenti potrebbe capitare che il prossimo razzo per Marte difettoso lo facciano pagare a noi, pubblico o privato che esso sia. E anche questa volta non sapremo spiegarci il perché.

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