La nuova sospensione del Consiglio dei ministri permette a molti membri del governo di studiare meglio il piano di Giuseppe Conte per accentrare una quantità di potere senza precedenti, in nome della gestione del Recovery Fund.

Nella bozza del Dpcm che il premier aveva portato in Consiglio dei ministri si trovano le prove di un progetto ampio, che non riguarda soltanto i fondi del piano Next Generation Eu ma l’intera politica economica.

Al comma 12 del primo articolo si legge una cosa che soltanto gli addetti ai lavori capiscono, ma che vale 50 miliardi: la programmazione della politica di coesione europea e nazionale deve essere fatta «in coerenza con le missioni del Piano nazionale di ripresa e resilienza» e gli interventi si attuano soltanto «previa approvazione del Ciae», il comitato interministeriale per gli affari europei. Confusi? Conte è pur sempre “l’avvocato del popolo” e sa come scrivere norme che soltanto in pochi riescono a decifrare.

Il controllo sui fondi di coesione

La sintesi è questa: nel prossimo bilancio europeo 2021-2027 all’Italia spettano i fondi di coesione per le aree meno sviluppate, quelli che in passato tanta fatica abbiamo fatto a spendere, da integrare con risorse nazionale e che nei prossimi anni ammontano a circa 50 miliardi. Finora erano gestiti da un’agenzia presso la presidenza del Consiglio e soprattutto dal Cipe, il comitato interministeriale per la programmazione economica che raccoglie tutti i ministri economici, a dare la direzione politica c’è il ministero per il Mezzogiorno oggi guidato da Peppe Provenzano (Pd). Con il Dpcm che Conte ha portato in Consiglio dei ministri, quei soldi potranno essere spesi soltanto nei modi approvati dal Ciae, cioè il mini-governo interno al governo creato da Conte e composto da lui stesso con il ministro per gli Affari europei Enzo Amendola e quello del Tesoro Roberto Gualtieri. In ogni caso, quei soldi saranno utilizzabili solo di raccordo con il Comitato esecutivo, l’altro organismo sotto il diretto controllo di Conte creato per gestire il Recovery Fund.

Tutta la politica economica, quindi, si sposta a palazzo Chigi ma senza usare le strutture della presidenza del Consiglio tradizionali, bensì soltanto quelle del governo parallelo e personale delineato da Conte. Lo schema è questo: all’interno del Ciae c’è un comitato esecutivo, fatto da Conte e Amendola, che supervisiona il Recovery Fund da 209 miliardi e riferisce al parlamento soltanto una volta ogni tre mesi. Gli altri ministri possono soltanto porre questioni che verranno esaminate dal comitato esecutivo prima di eventuali riunioni. Il comitato esecutivo crea poi una struttura di missione alla quale rispondono responsabili di missione, i famosi sei super manager di cui ancora non ci sono i nomi ma che dovrebbero arrivare da società partecipate dallo Stato.

Questi responsabili di missione possono dotarsi di un «contingente di personale» assunto a tempo determinato aggirando obblighi di concorsi (necessari per entrare nella pubblica amministrazione) e tetti agli stipendi.

La scelta avviene «fiduciariamente», cioè l’unica cosa richiesta è che il responsabile di missione si fidi dell’esperto che nomina. Non c’è alcun riferimento a come prevenire possibili conflitti di interesse o incompatibilità.

Il precedente

Tutto questo ha un precedente: dentro il ministero dei Trasporti c’è stata a lungo una struttura di missione che era una sorta di ministero parallelo e autonomo, la guidava Ercole Incalza, uno dei funzionari più potente di tutti i ministri con cui ha lavorato. La sua presa sul ministero che  durava dal 2001 si interrompe solo per un incidente di percorso: Incalza viene arrestato nel 2015 nell’ambito di un’inchiesta per corruzione che porta alle dimissioni dell’allora ministro Maurizio Lupi, poi verrà assolto “per non aver commesso l fatto”. Dopo l’uscita di Incalza la struttura tecnica di missione viene riformata dal ministro Graziano Delrio.

I responsabili di missione rischiano molto poco nell’esercizio delle loro funzioni, secondo la bozza del Dpcm, perché è previsto che operino liberi da qualsiasi limite tranne il codice penale: secondo il comma 8 del primo articolo, non ci sono controlli preventivi della Corte dei conti, non ci sono i vincoli di bilancio previsti per le altre strutture della presidenza del Consiglio dei ministri, possono procedere in deroga «a ogni disposizione di legge diversa da quella penale, fatto salvo il rispetto delle disposizioni del codice antimafia». E’ il cosiddetto Modello Genova, considerato virtuoso perché ha permesso a Fincantieri e WeBUild di ricostruire il ponte Morandi in due anni, dopo il crollo del 2018, sotto la regia del commissario e sindaco di Genova Marco Bucci.

Ma in quel caso non si spendevano i soldi dei contribuenti, bensì quelli di Autostrade per l’Italia e, va ricordato, l’Autorità anti corruzione allora guidata da Raffaele Cantone si è presto sfilata dalla procedura quando si è resa conto che veniva sistematicamente aggirata e che le veniva soltanto chiesto di approvare a posteriori progetti già decisi dalla politica. Adesso il governo Conte prova a coinvolgere di nuovo l’Anac, non si sa ancora con quali risultati.

I dubbi dei candidati

Il posto di responsabile di missione sulla carta è molto ambito, ma nella pratica nel mondo delle grandi aziende a controllo pubblico parecchi aspiranti si interrogano su alcuni dettagli: sembrano posizioni un po’ troppo simili a quella di commissario alla Sanità in Calabria, molto potere teorico ma altissima pressione politica, col rischio di fare da capro espiatorio.

Nel documento di 125 pagine che accompagna il Dpcm, si legge che se il responsabile di missione non si comporta bene, potrà “essere sempre revocato dalla competente Autorità politica, a cui resta pur sempre demandata, in ultima istanza, l’attività di verifica circa la corretta attuazione del piano”.

Un’altra delle tante perifrasi per ribadire lo stesso concetto: alla fine comanda soltanto uno solo, Giuseppe Conte.

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