Se il nome sarà Pier Ferdinando Casini, alla fine racconterà di aver vinto lui. Di essere stato lui il kingmaker del nuovo presidente della Repubblica. Del secondo consecutivo: dopo aver orchestrato l’elezione di Sergio Mattarella, dall’alto dei numeri di un Pd all’epoca (nel 2015) primo partito del parlamento, di essere riuscito nell’impresa anche da una situazione opposta, dal basso di capitano di una pattuglietta di 45 grandi elettori.

Ma il capolavoro di Renzi, sempreché davvero la pallina della roulette si fermi sull’ex presidente della camera suo vicino di ufficio a palazzo Giustiniani, sarebbe quello di aver cambiato verso a un piano inclinato che portava tutte le forze politiche a scivolare su Mario Draghi.

Il giro di telefonate

Nella domenica di vigilia l’ex premier ha fatto un lungo giro di telefonate, tra gli altri ha sentito Enrico Letta e Matteo Salvini. E ha capito, da entrambi, che la meta non è inarrivabile. Poi, a ora di pranzo su Rai3, ha fatto un appello ai colleghi del parlamento per un nome «europeista e atlantista», e fin qui siamo millimetricamente al profilo del presidente della commissione Esteri del senato, già suo fidato presidente della Commissione di inchiesta sul sistema bancario, alleato nell’attacco contro il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco (una mozione fallita, che gli è costata la rottura con Sergio Mattarella).

Poi è stato esplicito: Casini «ha fatto bene il presidente della Camera, oggi viene fuori il suo nome come una delle ipotesi cui si pensa, ma se partono quelli del centrodestra che dicono no a Casini e quelli del centrosinistra che rispondono no a Casellati».

Tradotto, se si finisce su Draghi, per Meloni e Letta sarebbe una vittoria smagliante. Casini è l’uomo che nel 2006 ha spaccato il suo partito, l’Udc, per portarlo a destra. Insomma, da eletto nel Pd (di Renzi) ha il più alto tasso di vicinanza alla destra recuperabile in un «super partes». Salvini avvertito, mezzo salvato.

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