Uno strappo, uno stop di quelli che pesano, ma anche uno scherzetto renziano al Pd: ieri mattina alla Camera Italia viva annuncia la sua astensione sulla riforma del voto ai diciottenni al senato. E il Pd, che ci conta per dimostrare che il sì al referendum ha propiziato una stagione di riforme approvate tutte a spron battuto, stavolta giura di aver finito la pazienza e chiede «un chiarimento ai massimi livelli». L’indirizzo è Palazzo Chigi. Il fatto per il capogruppo Graziano Delrio è «estremamente grave» e ora il premier deve «dare garanzie». Il fatto è anche che nelle settimane scorse, dopo le amministrative, Matteo Renzi aveva chiesto al premier «un patto di legislatura», addirittura un nuovo «contratto». Per pesare di più nel governo. C’è chi parla anche della pretesa di un altro ministro. C’è chi parla di un rimpasto gradito anche al Pd, ma indigeribile per i Cinque stelle. Comunque la richiesta era caduta nel vuoto. Dopo il voto di mercoledì al senato sullo scostamento di bilancio, acciuffato per un soffio, Italia viva ora torna alla carica sostenendo di essere indispensabile alla navigazione del governo. Ma non è l’unico partito dell’alleanza a voler contare di più. Anche nei gruppi del Pd serpeggia la stanchezza dei parlamentari che si sentono trattati come «pigiatori di bottoni» di provvedimenti per giunta approvati «a colpi di fiducia». Il voto ai diciottenni è il casus belli. I dem si scatenano contro Renzi. Ma è anche con il premier che ce l’hanno. Iv ha sbagliato, spiega il deputato Enrico Borghi: «C’è innanzitutto un problema di rapporto tra il governo e il Parlamento che, a questo punto, viene a galla. Manca una capacità di sintesi e di ascolto». E tocca a Conte porre rimedio, lui che è indicato da M5s e «non un passante».

Il casus belli è una mezza rottura degli accordi di maggioranza. Ieri in aula era prevista la seconda lettura del testo. Ma l’astensione di Italia viva, in combinato con il no delle destre (che pure in prima lettura l’avevano votato) rovina la festa. Alla camera voto sospeso e rimandato, «voto negato e congelato a quattro milioni e mezzo di elettori», accusa il deputato e costituzionalista Stefano Ceccanti che ha curato la legge passo passo. La destra in aula si concede ampie ironie: «La maggioranza è in piena confusione costituzionale, sulle tanto sbandierate riforme sono in tilt», declama il forzista Francesco Paolo Sisto, «siamo al fallimento di questo cocktail di incompetenza e comunismo che è al governo».

Il Pd attacca l’alleato sleale e tira fuori dall’archivio l’intervento con cui il renziano Marco Di Maio in commissione annuncia il sì di Iv. Era il 6 ottobre, solo dieci giorni fa: «E’ giusto dare seguito a questa riforma» diceva, siamo giunti «ad una fase conclusiva che non ammette più modifiche». E invece mercoledì 14 alle undici di notte il ministro per il rapporti con il parlamento Federico D’Incà, nel giro di telefonate di verifica dei numeri, si sente annunciare l’astensione di Iv. E la riforma si stoppa. Anzi tutte le riforme costituzionali si stoppano. Federico Fornaro, capogruppo Leu, chiede di sospendere l’iter del testo sulla base di elezione del senato di cui è relatore. E Giuseppe Brescia, presidente della commissione in cui giace la riforma elettorale, annuncia la sospensione dei lavori: «Serve un chiarimento su atteggiamenti molto ambigui, fra giochetti e veti».

Italia viva non si pente. Anzi l’ex ministra Maria Elena Boschi rivendica: Italia viva è decisiva sia alla camera che al senato, «chiediamo che sulla riforma costituzionale ci sia una visione d'insieme». Il Pd prende atto della figuraccia si ritira in una tumultuosa riunione di gruppo. Il vicesegretario dem Andrea Orlando si rivolge a Palazzo Chigi: siamo alla vigilia di passaggi «delicati» – dalla finanziaria al Recovery fund – il fatto rivela «ambiguità» nella maggioranza» e di questo «si deve far carico tutta la maggioranza. A partire da chi la guida».

@Riproduzione riservata

© Riproduzione riservata