Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del “Processo alla Sicilia”, il libro che raccoglie trentacinque inchieste di Pippo Fava, direttore de “I Siciliani”, ucciso con cinque colpi di pistola il 5 gennaio del 1984 a Catania


D’un tratto un brivido: mentre corri sul fianco di una montagna, la strada finisce di colpo contro un’altra montagna più alta. A sinistra c’è solo il burrone, come uno di quegli immensi canyons del West e laggiù il tonfo di una cascata che non vedi nemmeno, tanto è profonda. Una curva ancora e la strada si affonda in un tunnel di pietra, una specie di portone buio, un ponte levatoio, una botola, di là dalla quale si emerge in uno straordinario paesaggio, un’immensa vallata in mezzo alla quale si erge un monte spaccato in due, e sulle due creste di pietra un rovinio di case, l’una in equilibrio sull’altra, con un campanile in cima.

Tutt’intorno montagne, verdi in basso, aride e bianche sulle cime, poiché il vento le rade instancabilmente. Sembra una specie di Atlantide alla rovescia, un paesaggio emerso da un diluvio.

Trent’anni or sono questa strada e questo tunnel non c’erano. Coloro i quali volevano recarsi fino a Mongiuffi, rigattieri, ciarlatani, venditori ambulanti, il medico, carabinieri, il prete, il mercante di bestiame, dovevano seguire il fondo dei torrenti e scavalcare questa ultima, incredibile montagna. E di lassù, gli indigeni, se volevano scendere alla costa per vendere un gregge, le pezze di formaggio, per acquistare le stoffe, i chiodi, gli arnesi, una medicina, dovevano camminare un giorno intero, fosse pioggia o vento, guadare le acque, dormire all’addiaccio con gli animali.

Ma non scendevano quasi mai: avevano imparato a non avere bisogno di niente, allevavano i maiali ed i vitelli per la carne, le mucche per il latte, le pecore e le capre per la lana, tessevano sul telaio le lenzuola, i mantelli, le coperte; col cuoio delle pelli si facevano le scarpe, le cinghie, le redini, i gambali; dalla montagna scavavano la pietra per costruire le case, cuocevano l’argilla per farne le tegole, tagliavano gli alberi dei boschi per costruire le porte, le sedie, i tavoli, gli stipi, gli aratri.

Avevano il torchio per trarre l’olio dalle ulive, le macine di pietra per la farina, i forni per cuocere pane, i palmenti per una botte di vino a testa. Con l’agave facevano corde per impagliare le sedie, per legare le bestie, per sollevare i carichi e, se accadeva, anche per impiccarsi. Con il grasso dei maiali facevano sego per le candele.

Mancava loro soltanto il vetro, ma non era importante. E mancava il ferro per tutte quelle cose che invece debbono essere fatte di ferro. Una volta l’anno ne comperavano nei paesi della costa quanto bastava per lavorare.

Scendevano laggiù ai paesi del mare soltanto per una malattia, a cercare una salvezza oramai impossibile, oppure per chiedere giustizia di malefatte oramai definitive. E quando arrivavano da quelle remote valli che nessuno conosceva e dove nessuno avrebbe mai avuto occasione di andare, trovavano il mondo che incessantemente, furiosamente continuava a cambiare. La bicicletta, il treno, la nave, le automobili, i fascisti, la radio, gli inglesi, la televisione, i turisti, la penicillina. E sbigottivano. Angelo Musco, in una commedia famosa, ad un certo momento disse a soggetto all’antagonista: «Da dove vieni? Dai Mongiuffi?».

Millecinquecento abitanti, metà sulla cima di una montagna che si chiama Mongiuffi, e metà sull’altra cima che si chiama Melia. All’ingresso dell’abitato alcune panchine di pietra sulle quali stanno seduti in fila alcuni vegliardi candidi, rattrappiti, silenziosi. Non si muovono.

Cento metri più in là quattro ragazzi che giocano con una palla di carta, un camion con i pneumatici a terra, incrostati di fango fino ai mozzi: dev’essere qui fermo da almeno sei mesi. Un carabiniere che sbuca attonito da un cortile, un gruppo di donne sedute in cerchio su un ballatoio, il martello di un fabbro che picchia da qualche parte, una fontana con l’acqua quasi gelida, un piccolo bar dinnanzi al quale stanno cinque o sei persone, come se fossero esposte, come se il padrone, invece di vendere bibite e caramelle, vendesse quei suoi avventori.

Vi raccontiamo Mongiuffi attraverso tre colloqui; Un contadino scuro, piccolo, educatissimo: «Io sono di Meda. Una cosa diversa! Sapete qual è la fama di quelli di Mongiuffi? Una volta erano litigiosi, litigavano per niente, anche per l’ombra più corta o più lunga. Mio padre diceva che quelli di Mongiuffi camminavano con il mazzo delle carte in una tasca e con il codice nell’altra.

Io mi alzo all’alba, vado per la terra, semino, zappo, taglio a seconda delle stagioni. Oppure porto gli animali ad abbeverarsi e li governo, mungo il latte, toso la lana, aggiusto i muri. Oppure sto sotto un albero senza fare niente. Io non sono povero, io ho la casa, un poco di terra, gli animali. E perché dovrei emigrare, qui nessuno emigra, qui non ce ne sono disoccupati.

Volete sapere quanto costa una casa? Niente! Voglio dire che qui nessuno vuole comperare una casa. Ognuno ha la sua, che dovrebbe farsene di un’altra? Sissignore io so giocare a scopa, tressette, briscola coperta e scoperta, ma il mio più grande spasso è la festa della Madonna della Catena sull’altopiano, poiché c’è una bella processione di almeno dieci chilometri, la funzione sacra, e poi in mezzo alle campagne ognuno si scanna il suo montone, accende il fuoco e se lo fa cuocere sulle pietre. Tutti mangiano, bevono e dormono, anche i vecchi, le donne e i bambini!».

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