“Poca brigata, vita beata”, recita un vecchio proverbio. Divertente (e spesso adatto) quando si tratta di organizzare una cena o una gita che sarebbero troppo complicate e confuse con una comitiva troppo numerosa. Ma meno opportuno se parliamo della forma di partecipazione democratica per eccellenza: il voto.

L’alta affluenza elettorale non solo conferisce maggiore legittimità a eletti e governanti, ma offre anche una misura più accurata delle preferenze e aspirazioni di una popolazione, ed è un segnale di fiducia nelle istituzioni democratiche stesse. 

La tradizione di pensiero liberale, a cui comunemente si attribuisce la promozione della democrazia moderna, non vedeva tuttavia il suffragio universale o la partecipazione diffusa alle scelte politiche come necessariamente positivi per la vita di una comunità.

Meglio votare meno?

Negli Stati Uniti, il Presidente non è formalmente eletto direttamente dai cittadini, che invece votano per un collegio di grandi elettori il quale poi procede alla nomina del presidente, con la possibilità legale di ribaltare il voto della maggioranza popolare.

Alla base di questo meccanismo c’è l’idea che, anche in democrazia, è bene che ci sia la possibilità di correggere il volere della maggioranza, se la maggioranza, a parere di un gruppo ristretto, ha “sbagliato”. Secondo lo storico Gordon Wood, anche la Costituzione americana aveva il compito di contenere il potere delle costituzioni locali che alcuni Stati avevano già promulgato, perché i Padri costituenti non ritenevano i governi locali (presumibilmente espressione più immediata del volere dei cittadini) adeguati al ruolo.

Con rare eccezioni, in occidente il capo dell’organo esecutivo nazionale non è direttamente eletto, e infatti, come ben sappiamo in Italia, spesso non rappresenta la maggioranza del voto espresso per il parlamento, o non fa proprio parte di nessuna forza politica dell’arco parlamentare.

In Italia abbiamo letto e ascoltato diversi politici, che in larga parte si identificano col pensiero liberale, non ritenere la bassa affluenza al voto necessariamente un problema o attribuire alla dabbenaggine dei cittadini la causa dei loro dei loro deludenti risultati elettorali.

Perché in Francia votano tanto?

French far-right leader Marine Le Pen arrives at a television recording studio for a debate with centrist candidate and French President Emmanuel Macron, Wednesday, April 20, 2022 in La Plaine-Saint-Denis, outside Paris. In the climax of France's presidential campaign, centrist President Emmanuel Macron and far-right contender Marine Le Pen meet in a one-on-one television debate that could prove decisive before Sunday's runoff vote. (AP Photo/Francois Mori)

Una notevole eccezione tra i paesi occidentali, e particolarmente attuale in questi giorni, è rappresentata dalla Francia. Qui i cittadini eleggono direttamente il presidente della Repubblica, che oltre al ruolo di rappresentanza ha un’influenza significativa sul governo del paese. E il coinvolgimento della cittadinanza non è mancato, negli anni: l’affluenza è sempre stata alta al primo turno, quando è più probabile trovare un candidato vicino alle proprie preferenze, ma anche al secondo turno, a differenza di altre istanze (ad esempio le elezioni amministrative italiane) in cui l’affluenza è significativamente minore al ballottaggio.

Nonostante la grande partecipazione, l’affluenza al voto presidenziale francese è in calo da diverse tornate. Una ripresa della partecipazione al ballottaggio rispetto al 74 per cento dell’11 Aprile farebbe senz’altro bene alla democrazia, e per questo entrambi i contendenti dovrebbero incoraggiare le persone a votare. Ma l’alta affluenza beneficerebbe ugualmente Macron e Le Pen oppure favorirebbe l’uno o l'altra?

Chi guadagna dall’affluenza

Difficile rispondere a questa domanda con analisi empiriche rigorose. Ma una serie di indizi contingenti e di tendenze più strutturali suggeriscono che proprio il candidato che più è identificato come garanzia democratica, e cioè il presidente in carica, potrebbe avere uno svantaggio da una partecipazione maggiore.

Un primo indizio riguarda le caratteristiche del voto del primo turno. Le campagne elettorali dei due candidati più votati dopo il presidente, la stessa Marine Le Pen e Jean-Luc Mélenchon, pur nelle loro fondamentali differenze, hanno avuto nel contrasto diretto a Macron e alle sue politiche un elemento essenziale.

Se il desiderio di non avere questo presidente per altri cinque anni è altrettanto forte negli elettori di questi candidati, allora la motivazione a tornare a votare il 24 Aprile potrebbe essere più forte di quella dei sostenitori di Macron.

Tra i candidati meno votati, poi, e’ ragionevole pensare che sia proprio Zemmour, l’altro candidato di estrema destra, ad avere gli elettori più motivati a tornare ai seggi, sia per liberarsi di Macron sia per l’occasione storica di avere una presidentessa ideologicamente a loro vicina. 

A votare per Macron sono state soprattutto le persone dai sessant’anni in su, la categoria con affluenza maggiore. Macron quindi potrebbe essere vicino al “pieno” dei voti dal suo bacino più rilevante, rispetto a Marine Le Pen che ha una base elettorale più giovane (ma non più giovane di quella del candidato della sinistra, Mélenchon). 

Ma ci sono almeno due fattori piu’ profondi che possono rendere una grande partecipazione popolare piu’ ostile a un candidato “di sistema”.

La prima ragione riguarda l’evoluzione del sistema economico negli ultimi decenni e i mutamenti dei rapporti sociali che ne sono derivati. Proprio questo giornale ha intrapreso, per tutto il 2022, un lavoro di inchiesta sulle disuguaglianze, riconoscendo l’importanza di questo tema.

Alle cause di lungo periodo, come la rivoluzione digitale e la globalizzazione che tendono a polarizzare il mondo del lavoro e a ridurre la mobilita’ sociale, si sono aggiunte la crisi finanziaria del 2007-2008, la pandemia di Covid e, ora, la guerra in Ucraina con ulteriori effetti regressivi e penalizzanti delle classi più fragili, e con conseguenze che proseguiranno per generazioni in assenza di sostanziali correzioni.

La presidenza Macron ha perseverato nel mito della “Terza Via” blairiana, a priori ottimista sul ruolo delle tecnologie digitali e del mercato globale, e convinta che il ruolo del governo sia quello classico di correggere alcune inefficienze classiche dei mercati: da qui misure come la riduzione delle tasse e dei sussidi per l’affitto, la flessibilizzazione del lavoro in una fase di crescita delle precarietà e dei lavori atipici della “gig economy”, e la carbon tax come strumento semplice e efficiente per combattere il cambiamento climatico, ma anche misura regressiva. In una fase di crescenti disuguaglianze e di minore mobilità sociale, questa filosofia e pratica politica ha lasciato ai margini proprio le classi più svantaggiate. 

Dal consenso al marketing

French far-right candidate Eric Zemmour grimaces after preliminary results were announced for the first round of the presidential election in Paris, France, Sunday, April 10, 2022. Up to 48 million French voters headed to polling stations nationwide Sunday for the first round of the country's presidential election, one that seemed for months like a shoo-in for French President Emmanuel Macron but is now a tossup amid a strong challenge from the far right's Marine Le Pen. (AP Photo/Michel Euler)

Questo riferimento a vari “segmenti” dell’elettorato ci porta a considerare l’altra tendenza di fondo che può influire sulla partecipazione con conseguenze asimmetriche per i contendenti.

Si tratta della progressiva trasformazione della ricerca del consenso da una battaglia delle idee al marketing politico. Trasformazione che ha spinto tutte le forze politiche a identificare specifiche “nicchie” di popolazione a cui riferirsi per differenziarsi dai rivali, rinunciando progressivamente a una visione d’insieme e a una idea coerente di società da proporre ai cittadini.

Come nel marketing commerciale, la segmentazione è più efficace se avviene anche attraverso “pubblicità negativa”, cioè con la creazione di conflitto fra diversi gruppi e l’identificazione di nemici.

Un’offerta politica che segue gli umori del momento tende poi a concentrarsi solo su questioni contingenti, di fatto confermando la configurazione sociale ed economica esistente. Una volta identificato un target di riferimento e constatato che altri gruppi sociali sono più difficili da convincere, una forza politica si rivolgerà a coloro che con maggior probabilità daranno il consenso.

Nel caso delle forze liberal-democratiche come La République En Marche, il gruppo sociale di riferimento è sempre più diventato quello delle élite economiche e culturali, come, tra gli altri, ha recentemente dimostrato Thomas Piketty.

Un “segmento” che, allo stesso tempo, partecipa più attivamente al voto e ha i mezzi per influenzare le scelte politiche, creando così ancora più incentivi per quelle forze a rivolgersi principalmente ad esso. Ma anche un gruppo intrinsecamente minoritario.

Ironicamente, proprio quelle forze liberal-democratiche che si autodefiniscono moderne, giovani e per il cambiamento, e che bollano i contendenti, con imbarazzante sciatteria, come populisti e conservatori, sono sempre più identificate come i garanti delle categorie più protette e in generale dello status quo.

La regola del meno peggio

People watch centrist candidate and French President Emmanuel Macron durng his televised debate against far-right contender Marine Le Pen in La Plaine-Saint-Denis, outside Paris, Wednesday, April 20, 2022. In the climax of France's presidential campaign, centrist President Emmanuel Macron and far-right contender Marine Le Pen meet Wednesday evening in a one-on-one television debate that could prove decisive before Sunday's runoff vote. (Ludovic Marin, Pool via AP)

La crescente percezione di un sistema economico e sociale sempre meno equo per la maggioranza della popolazione, e la progressiva trasformazione dei cittadini, da parte dei partiti, in segmenti di consumatori da convincere (o da ignorare), ha prodotto una crescente sfiducia non solo verso le forze politiche che piu’ si caratterizzano come espressione del sistema esistente, ma, più in generale, verso la democrazia rappresentativa nei paesi occidentali. 

Questa sfiducia potrebbe indebolire le motivazioni per andare a votare al ballottaggio, oppure spingere a votare contro il presidente in carica. Le tensioni sociali che hanno caratterizzato la presidenza negli ultimi cinque anni potrebbero anche indebolire gli appelli all’unità contro il pericolo dell’estrema destra antidemocratica che Le Pen rappresenta, un appello che nel 2017 ha avuto successo così come nel 2002 nei confronti di suo padre Jean-Marie. Dal punto di vista di Macron e dei suoi sostenitori, una minore partecipazione democratica potrebbe quindi essere preferibile. 

I sondaggi al momento prevedono un risultato di 55 per cento contro 45 per cento per Macron (nel 2017 finì 65-35). Ma la percentuale di francesi che disapprova l'attività del presidente è da tempo maggiore di quella che lo appoggia.

Senza una riflessione più profonda sulle tendenze economiche e sociali in Francia e oltre, non è davvero chiaro quanto ancora a lungo possa essere credibile e appetibile l’argomento del “meno peggio” che pare il messaggio principale che le forze liberal-democratiche, in Francia e altrove, sono riuscite a lanciare negli ultimi anni.

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