Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.


Alla stregua delle osservazioni fin qui articolate questa Corte non condivide le conclusioni secondo cui si disporrebbe della prova per ritenere che Marcello Dell'Utri “...abbia fatto da tramite per far giungere la rinnovata minaccia mafiosa sino a Berlusconi quando questi era già presidente del Consiglio” né, tanto meno, che il medesimo Dell'Utri abbia posto in essere “... condotte idonee a provocare o rafforzare nei responsabili mafiosi l’intento di rinnovare ancora la minaccia questa volta nei confronti del Governo Berlusconi.

Una dimostrazione che difetta in termini assoluti relativamente a quest’ultimo aspetto della vicenda, poiché non risulta che il predetto appellante abbia provocato o rafforzato alcun proposito delittuoso di questo tipo, avendosi semmai prova di un suo coinvolgimento nella fase dell’accordo politico/mafioso nei termini sopraddetti nei quali il reato di cui alI’art. 338 c.p. non era neppure configurabile (prima dell’insediamento del Governo Berlusconi). Una dimostrazione che difetta in termini di certezza probatoria (“oltre ogni ragionevole dubbio”) quanto all’altro aspetto, perché non vi è prova certa che Dell'Utri abbia realmente veicolato una minaccia stragista a Silvio Berlusconi in qualità di presidente del Consiglio sostanzialmente per chiedere l’adempimento delle promesse per le quali lo stesso Dell'Utri si era impegnato e speso in campagna elettorale.

Cosa diceva la sentenza di primo grado

Nel capitolo “4.5 Conclusioni sulla rinnovazione della minaccia nei confronti del governo Berlusconi” il giudice di prime cure, riprendendo la tematica dell’accordo pre elettorale, ne ha prospettato la esistenza scrivendo che “...ben prima dell‘insediamento del nuovo Governo Berlusconi ed, anzi, quando neppure, ovviamente, fosse certo che il nuovo partito politico fondato da Silvio Berlusconi con l‘apporto determinante di Marcello Dell'Utri sarebbe riuscito a prevalere nelle elezioni politiche del 1994 e ad ottenere l’incarico di formare il nuovo Governo (superando le perplessità del capo dello Stato Scalfaro quali emergono anche dalla lettura dell’agenda del 1994 del presidente del Consiglio uscente Ciaimpi, Dell‘Utri, attraverso Vittorio Mangano, al fine di accaparrare in favore di Forza Italia anche i voti che in Sicilia “cosa nostra” allora ancora in misura non piccola controllava, aveva dato assicurazioni — rectius, aveva promesso — che l‘eventuale nuovo Governo presieduto da Berlusconi (v. dich. La Marca: “se saliva Berlusconi”) avrebbe adottato alcuni provvedimenti oggetto di risalenti richieste dei mafiosi”.

Tale promessa, proprio perché finalizzata ad acquisire il consenso elettorale controllato da “cosa nostra “che in quel momento poteva anche apparire determinante in un ‘importante Regione qual è la Sicilia, non può, però, ritenersi frutto della minaccia che pure Mangano. non potendo di certo sottrarsi all’incarico espressamente affidatogli da Bagarella e Brusca, ebbe a recapitare al Dell'Utri (v. dich. Giovanni Brusca già riportate: “...se non si mette a disposizione noi continueremo con la linea stragista...”), dal momento che, per un verso, non risulta — non avendone mai alcun collaborante riferito — che siano state rivolte in quel periodo minacce di carattere personale a Dell‘Utri o a Berlusconi e, per altro verso, il pericolo di nuove stragi in quel momento riguardava altro Governo ed, anzi, avrebbe potuto seminai favorire l’ascesa di nuove forze politiche se si fosse diffusa l‘opinione che il Governo allora in carica non fosse in grado di farvi fronte.

Come anticipato questo ragionamento viene condiviso tuttavia limitatamente alla parte dell’accordo preelettorale o del patto politico/mafioso raggiunto da e con Dell'Utri, mentre rimane incerto (quindi indimostrato) stabilire se già in questa fase, riferita sempre all’antefatto quale mero antecedente (non punibile ex art. 338 c.p. in assenza dell’insediamento del Governo di che trattasi), Berlusconi sapesse dell’accordo preelettorale (o della semplice promessa elettorale, come pure definita) sottoposto alla minaccia preventiva e doppiamente condizionata di cui si è abbondantemente detto: se quella formazione politica avesse vinto le elezioni; se la stessa, una volta assunti incarichi di governo, non avesse rispettato le interlocuzioni avute da Dell'Utri con l’organizzazione mafiosa.

Ed è essenziale ripetere che per le valutazioni di interesse non basterebbe aver conferma del fatto, per quanto in sé illecito e moralmente disdicevole, che Berlusconi, già sceso in politica ma ancora privo di incarichi di governo, fosse al corrente dell’accordo diretto a favorire la “sua” formazione politica con i voti pilotati da Cosa nostra (che per di più provenivano sia dall’ala stragista sia dall’ala che alla prima si contrapponeva in seno a Cosa nostra), ma sarebbe necessario dimostrare anche che questo leader politico sapesse, in questa fase, che tale appoggio elettorale nasceva viziato dal fatto che, per volere di Bagarella e Brusca, se non fossero stati rispettati certi accordi preelettorali sarebbero riprese (o continuate) le stragi sulla falsariga di quelle del terribile biennio 1992/93.

Come corollario a tale premessa dovrebbe ritenersi che, una volta insediatosi a capo del Governo, sarebbe stata recapitata la minaccia (anche sotto forma di ulteriore sollecitazione) sempre a Berlusconi ma questa volta in termini cogenti e tali da portare a consumazione il reato in danno del Governo della Repubblica, semplicemente chiedendo quali fossero le iniziative assunte e/o che si intendevano assumere per onorare gli “impegni”.

Un ragionevole dubbio (ma molto residuo)

Si è visto anche come residui un ragionevole dubbio sul fatto che Dell'Utri abbia effettivamente recapitato il “messaggio stragista” a Berlusconi, sia prima sia dopo l’insediamento del governo presieduto da quest’ultimo, non potendosi al riguardo trarre risolutivi elementi di conferma né dall’argomento “logico”, secondo cui Dell'Utri, per quanto già irrevocabilmente condannato per il reato aggravato di cui agli artt. 110 e 416 bis c.p., dovesse necessariamente affrontare queste tematiche con Berlusconi, né dal fatto che Cosa nostra continuava a ricevere, almeno fino a dicembre del 1994, una lauta e periodica tangente mafiosa per i ripetitori televisivi di Mediaset istallati sul Monte Pellegrino a Palermo.

Ciò posto, è il momento di approfondire il significato dei due incontri, il primo tra giugno e luglio 1994 e il secondo nel dicembre del medesimo anno, di Vittorio Mangano con Marcello Dell'Utri voluti dal Mangano sostanzialmente per sollecitare l’adempimento degli impegni presi in campagna elettorale e nei quali, sempre il Mangano, ha ricevuto delle anticipazioni sui provvedimenti che erano prossimi al varo o quantomeno in avanzata fase di elaborazione normativa.

E non si tratta soltanto di capire che forma e che grado di esteriorizzazione abbiano avuto simili “sollecitazioni”, per soppesarne la valenza intimidatoria (argomento sul quale pure ci si interrogherà), ma ancor prima di verificare se il presidente Berlusconi si stato destinatario ditali comunicazioni.

Per affrontare questa tematica appare opportuno formulare alcune considerazioni preliminari che ricalcano quelle stesse considerazioni preliminari da cui muove la sentenza impugnata:

“Invero, occorre, innanzitutto, ancora sottolineare che, come si è visto nella parte terza della sentenza, capitolo 12, paragrafo 12.3, la minaccia è un reato formale di pericolo che si consuma già allorché il mezzo usato per attuarla abbia in sé l‘attitudine a intimorire il soggetto passivo e cioè a produrre l‘effetto di diminuirne la libertà psichica e morale di autodeterminazione.

Ne consegue che,[...] per la consumazione del reato non occorre che il predetto effetto si verifichi in concreto, ma soltanto che la minaccia sia stata percepita dal soggetto passivo, essendo il bene tutelato dalla norma penale quello della integrità psichica e della libertà di autodeterminazione del soggetto passivo.

Tale precisazione è necessaria per puntualizzare che non occorre in questa sede accertare che gli interventi legislativi, tentati o attuati su iniziativa della forza politica facente capo al presidente del consiglio Silvio Berlusconi, siano stati concretamente determinati dalla coartazione della libertà psichica e morale di autodeterminazione dei proponenti per effetto della minaccia mafiosa.

Anzi, vi sono fondate ragioni per ritenere — e in ciò può concordarsi con la difesa dell‘imputato Dell ‘Utri (v. trascrizione udienza del 16 febbraio 2018 e memoria successivamente depositata) — che le dette iniziative non siano state effetto diretto di una minaccia, dal momento che, sin dalle origini, in Forza Italia era stata inserita anche una consistente componente di soggetti che, per asserita vocazione ‘garantista “, da tempo si battevano contro alcuni provvedimenti adottati in funzione antimafia dai precedenti Governi.

L’opposizione di alcuni (futuri) ministri al 41 bis

Si pensi in proposito, alla opposizione al regime del 41 bis già nel 1992 da parte di alcuni esponenti politici e dell‘avvocatura poi confluiti in Forza Italia e ad alcune iniziative ampiamente pubblicizzare, di cui pure si è dato conto nel presente dibattimento, quali le visite in carcere, viste con favore anche dai mafiosi, effettuate nel settembre 1993 degli on. Maiolo e Biondi (v. testimonianza Bonferraro: “[...]”), poi, entrambi, appunto, inseriti nelle liste di Forza Italia e successivamente anche divenuti la prima presidente della commissione Giustizia della Camera dei deputati ed il secondo ministro della Giustizia nel governo Berlusconi.

Si vuole dire, in altre parole, che i tentativi da parte del governo Berlusconi di adottare provvedimenti attesi (anche) da “cosa nostra” e, poi, l’effettiva adozione di taluni di essi, ai fini che qui rilevano, non devono essere necessariamente letti come legati da un rapporto di causa ed effetto con una minaccia mafiosa, ben potendo anche ricondursi alla attuazione di un programma ampiamente prevedibile (e previsto dagli stessi mafiosi), e, quindi, come mantenimento di impegni volontariamente assunti durante la campagna elettorale (ànche da parte di Dell ‘Utri nei confronti dei mafiosi) per acquisire il consenso e i voti anche di quei non piccoli settori della popolazione che vedevano sfavorevolmente la contrapposizione frontale con le organizzazioni mafiose perché ritenuta causa delle efferate stragi che si erano verificate nel biennio 1992-93.

Se, dunque, non risulta che “...gli interventi legislativi, tentati o attuati su iniziativa della forza politica facente capo al presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, siano stati concretamente determinati dalla coartazione della libertà psichica e morale di autodeterminazione dei proponenti per effetto della minaccia mafiosa , è chiaro che le iniziative in oggetto non possano costituire un indice probatorio per dimostrare la pressione mafiosa/stragista esercitata in danno di questo leader politico sia prima sia (soprattutto) dopo l’insediamento del governo.

Assodato, infatti, che le dette iniziative non sono tate effetto diretto di una minaccia, dal momento che, sui dalle origini, in Forza Italia era stata inserita anche una consistente componente di soggetti che, per assenta vocazione “garantista”, da tempo si battevano contro alcuni provvedimenti adottati in funzione antimafia dai precedenti governi, pare altrettanto evidente che a quegli impulsi riformatori della legislazione, di cui è stato messo al corrente in anteprima il Mangano tramite Dell'Utri, si sia potuti giungere secondo quel percorso “ampiamente pubblicizzato” che esisteva in seno a Forza Italia e che vedeva schierata in termini definibili “garantisti” una parte di questa formazione politica e, in particolare, alcuni dei suoi esponenti tra i quali quelli ricordati nella stessa sentenza quali l’on. Biondi e l’on. Maiolo, che hanno assunto anche incarichi istituzionali.

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