Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza della Corte d'Assise di Milano che ha condannato all'ergastolo Michele Sindona per l'omicidio dell'avvocato Giorgio Ambrosoli


La ricostruzione della messa in scena e delle sue complesse modalità di attuazione offre una preziosa chiave di lettura del personaggio Sindona, della sua personalità tortuosa, e delle sue sconfinate capacità di frode e di simulazione teatrale. I vari aspetti della vicenda vanno peraltro esaminati anche per comprendere gli scopi in vista dei quali Sindona ed i suoi collaboratori progettarono ed attuarono l’intera operazione.

Ciò soprattutto per poter decidere in ordine alla posizione di quelle persone che, per il solo fatto di avere partecipato a livello organizzativo alla esecuzione della messa in scena, conoscendone e condividendone i fini, sono state imputate di concorso nelle attività minatorie ed estorsive poste in essere ai danni di Enrico Cuccia nel periodo del finto rapimento.

Il contesto e lo stato dell'intera vicenda sindoniana nell’epoca in cui venne decisa la simulazione del rapimento, alcune dichiarazioni rese durante le prime indagini da persone vicine a Sindona, e tutto lo svolgimento della messa in scena con i numerosi messaggi dei “rapitori” e del “rapito”, evidenziano in primo luogo, in tale operazione di Sindona, una finalità che si potrebbe chiamare pubblicitaria, in quanto rivolta a ricostituire in senso positivo l'immagine del finanziere, a quel punto gravemente deteriorata, ed a propagandare con la massima risonanza l'assunto della sua estraneità ai delitti attribuitigli e, in particolare, all’omicidio dell’avvocato Ambrosoli.

Sindona è sempre stato malto sensibile all’esigenza di proporre al pubblico un’immagine positiva di sé, e ciò a buona ragione, essendo egli consapevole del fatto che ben difficilmente gli uomini del potere ufficiale ai quali si rivolgeva per la sistemazione delle procedure a suo cArico, avrebbero potuto aiutarlo concretamente qualora la sua immagine pubblica fosse stata impresentabile.

Questa esigenza era diventata particolarmente acuta nella primavera del 1979, quando tutto sembrava svolgersi in modo per lui nettamente sfavorevole, con il sostanziale stallo dei tentativi di salvataggio della Banca privata italiana e la formale incriminazione negli Stati Uniti per il fallimento della Franklin Bank, e quando egli aveva deciso di reagire preparando un attentato ai danni dell'avvocato Ambrosoli, pur avendo la consapevolezza, che l'opinione pubblica e la stampa lo avrebbero indicato come il probabile mandante di un simile delitto.

È infatti significativo rilevare come le attività decisionali, preparatorie ed esecutive dell'attentato a Giorgio Ambrosoli e della simulazione del sequestro si fossero svolte nelle stesse epoche, tanto da giustificare la convinzione che fra le due imprese vi fosse un preciso rapporto. Nell'aprile del 1979, invero, Sindona manifestò a Cuccia, nel corso del colloquio di New York, la propria decisione di sopprimere Ambrosoli, e pochi giorni prima si era procurato il falso passaporto, a nome di Joseph Bonamico, impiegato poi per il viaggio segreto in Italia.

Nel periodo successivo vi furono, da un lato, i complessi preparativi per attuare la messa in scena del rapimento, e, dall’altro i numerosi contatti telefonici fra Sindona e Venetucci ed i viaggi e soggiorni di William Arico a Milano nel corso dei quali costui aveva studiato le mosse dell'avvocato Ambrosoli ai fini di un futuro attentato.

Il commissario liquidatore venne ucciso nella notte fra l’11 e il 12 luglio, mentre nei giorni immediatamente precedenti e in quelli successivi fervevano i preparativi ed i contatti, a New York, fra tutte le persone che dopo circa venti giorni avrebbero dato inizio all’operazione del finto sequestro.

È logico quindi concludere che Sindona già indicato come bancarottiere in Italia e negli Stati Uniti, prevedendo o temendo di essere sospettato quale mandante dell’attentato che stava preparando contro Giorgio Ambrosoli, ed essendo consapevole che tutto questo poteva influire sfavorevolmente sull’esito delle procedure in corso a suo carico in entrambi i paesi, avesse ideato la claMorosa simulazione del proprio sequestro ad opera di un’organizzazione terroristica di sinistra, riproponendosi, fra l’altro, di distrarre l’opinione pubblica italiana e statunitense dai delitti a lui attribuiti, e dì sostituire alla propria immagine pubblica di bancarottiere e di mandante di un assassinio quella di vittima dell'altrui malvagità.

Tutto ciò confidando nella scarsa memoria che il pubblico ha dei delitti commessi da taluno, quando della stessa persona si offre, con grande risonanza pubblicitaria, un'immagine in chiave pietosa e vittimistica che riesca a sovrapporsi alla prima.

Quando Sindona predispose la simulazione del proprio rapimento si era conclusa solo da un anno la tragica vicenda del sequestro e dell'assassinio dell'on. Moro ad opera delle Brigate Rosse. ed erano ancora vivi nel pubblico la commozione e la pietà suscitati da quel fatto e dalle immagini del sequestrato prigioniero.

Sindona, ideando la messa in scena del proprio rapimento, ebbe sicuramente presenti le cronache del sequestro Moro, tanto che ne imitò varie modalità, quali la “prigione del popolo”, il “processo proletario”, i comunicati numerati dei “sequestratori”, la fotografia polaroid del prigioniero, e le varie lettere con le quali il rapito raccomandava soluzioni che valessero a scongiurare la sua uccisione.

Egli quindi volle suscitare anche per sé un’uguale ondata di commozione e di pietà, contando di avvalersene sia nelle procedure italiane che, soprattutto, in quelle statunitensi, dove da tempo la sua linea di difesa faceva leva sull'assunto della persecuzione comunista ai suoi danni.

Inoltre, con la messa in scena del rapimento egli accreditava l’esistenza di una organizzazione violenta e misteriosa, a lui ostile, che poteva anche essere responsabile dei delitti a lui ingiustamente attribuiti. L’ipotesi che alla simulazione del sequestro non fosse estranea una siffatta finalità “pubblicitaria”, ed in particolare la finalità di creare una grande cassa di risonanza alla tesi difensiva di Sindona sull’omicidio Ambrosoli, è confortata sia dalla cura con la quale i “sequestratori”, ossia lo stesso Sindona, in vari messaggi avevano trasmesso disposizioni sulle forme di pubblicità da dare ai loro scritti ed a quanto gli avvocati Guzzi e Gambino avrebbero visto durante l’incontro di Vienna (dove Sindona intendeva presentarsi nella pietosa condizione di prigioniero recentemente ferito con un colpo di pistola), sia dal contenuto della lettera pervenuta il 27 agosto all’avvocato Guzzi, nella quale Sindona sosteneva la sua estraneità all’omicidio Ambrosoli ed affermava che di ciò erano convinti anche i suoi sequestratori.

E anche nella lettera minatoria ed estorsiva inviata in questo periodo da Sindona a Enrico Cuccia, della quale si parlerà fra poco, si ingiungeva a quest’ultimo, con minacce di morte, di attivarsi presso editori e giornalisti per riabilitare l’immagine dello stesso Sindona.

In singolare sintonia con questa finalità appaiono, infine, le dichiarazioni rese all’Fbi, nei giorni successivi al finto rapimento, da alcune delle persone appartenenti all'entourage di Sindona.

In particolare, l’avvocato Guzzi, giunto a New York il 3 agosto portando, fra l’altro, diversi ritagli di giornali italiani nei quali Sindona era indicato quale mandante dall’omicidio Ambrosoli, disse agli agenti che lo interrogavano che a suo parere Sindona era stato rapito dagli stessi che avevano ucciso il commissario liquidatore. E identica affermazione venne fatta alcuni giorni dopo da Daniel Porco.

Simili affermazioni rivelano la provenienza da un comune suggeritore, dato che con esse l’avvocato Guzzi certo non esprimeva il suo reale pensiero: egli infatti era presente quando, solo alcuni mesi prima, erano giunte ad Ambrosoli minacce telefoniche di morte delle quali aveva chiaramente percepito la provenienza sindoniana, ed il giorno 12 luglio 1979, commentando con Enrico Cuccia l’assassinio commesso alcune ore prima, aveva appreso dallo stesso Cuccia che Sindona, durante il colloquio svoltosi in aprile a New York, aveva manifestato il proposito di sopprimere il commissario liquidatore.

Una attenta analisi delle lettere che Sindona trasmise dalla sua finta condizione di prigionia, e dei messaggi da lui attribuiti agli inesistenti sequestratori – lettere e messaggi nei quali si raccomandano, o si suggeriscono, determinate forme di pubblicità – rivela chiaramente che la messa in scena del rapimento ebbe da parte dello stesso Sindona un’altra, e forse prevalente, finalità: quella di esercitare una continua e persistente pressione ricattatoria su ambienti e persone allo scopo di ottenere un aiuto concreto e fattivo che valesse a fargli superare la critica situazione in cui si trovava.

Basta leggere, al riguardo, la lettera pervenuta all’avvocato Guzzi il 27 agosto, il messaggio telefonico trasmesso dalla Longo, nella finta veste di portavoce dei “rapitori”, all’avvocato Guzzi il 3 settembre, e la lettera del “rapito” recapitata allo stesso Guzzi il 12 settembre per constatare come Sindona, da un lato, volesse rappresentare i propri sequestratori come individui fermamente intenzionati ad accertare, documentare e rendere di pubblico dominio atti di corruzione, “operazioni irregolari” e malefatte varie che sarebbero state commesse negli anni precedenti da uomini politici e da personaggi del mondo economico e finanziario, e, dall'altro, intendesse presentare se stesso come persona che, per quanto leale e riluttante, avrebbe potuto essere costretta dalla necessità di salvare la propria vita a fornire i documenti ed a fare le rivelazioni richieste, e quindi come persona che molti avevano interesse ad aiutare in quel frangente.

I destinatari di queste pressioni ricattatorie, ai quali Sindona rimproverava di non avere mai mosso un dito per aiutarlo, venivano indicati genericamente nei vari messaggi come persone della Democrazia Cristiana, del Partito Socialista e del Partito Socialdemocratico, e come esponenti del “padronato” e del mondo finanziario, quali coloro che apparivano sulla famosa “lista dei 500” titolari di irregolari depositi bancari esteri, e tali indicazioni erano comunque formulate in modo da consentire alle persone interessate di riconoscersi come destinatari delle richieste di aiuto.

E ciò che Sindona si aspettava da costoro erano aiuti finanziari – magari mascherati come riscatto da versare agli inesistenti sequestratori – e, a seconda delle singole possibilità e competenze, fattivi interventi a sostegno dei progetti di salvataggio che continuavano ad essere coltivati.

Del resto, anche negli anni e nei mesi precedenti Sindona, trasmettendo attraverso l’avvocato Guzzi all’on. Andreotti delle richieste di intervento in suo aiuto, le aveva accompagnate talvolta con messaggi sottilmente ricattatori, rappresentando il pericolo di dover fare rivelazioni compromettenti.

E sempre con minacce di questa natura, come si è detto, nei primi mesi del 1978 Sindona aveva costretto Roberto Calvi a versargli una cospicua somma di danaro. Le pressioni ricattatorie poste in essere da Sindona nel periodo del finto rapimento nei confronti di un certo establishment politico e finanziario non furono quindi che la prosecuzione di questi metodi, attuati questa volta nella cornice di un inscenato sequestro terroristico destinato ad attribuirvi particolare efficacia intimidatrice.

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