Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà alcuni stralci del suo libro, “C'era una volta il pool antimafia”, edito da Zolfo Editore


Di mattina eravamo sempre in giacca e cravatta, ma specie nei pomeriggi e nelle sere d’inverno, terminati gli impegni ufficiali, Giovanni e io ci mettevamo un po’ in libertà, indossando un maglione: ricordo che il mio era verde, quello di Giovanni rosso, i nostri colori preferiti.

Lavoravamo in silenzio con le porte delle nostre due stanze aperte, e più volte è accaduto che, a una certa ora, lui mi dicesse: “Leonardo, si è fatto tardi, leviamo il disturbo allo Stato”. Una delle non poco frequenti battute scherzose di Giovanni? Forse, ma pensando alla storia di Giovanni Falcone, a tutto quello che gli è accaduto e che ha dovuto subire e a come è stato demolito il pool antimafia dopo l’avvento del consigliere Antonino Meli in quel nefasto 1988, quella sua battuta mi è apparsa negli anni sempre più profetica. «Togliamo il disturbo allo stato...».

Uno snodo fondamentale, del quale avrò modo di parlare nel prosieguo. Noi del pool avevamo quindi abbandonato le stanze utilizzate in precedenza, mentre il consigliere Caponnetto aveva occupato la stanza che era stata del suo predecessore. Il consigliere Rocco Chinnici.

All’Ufficio di Istruzione avvertivamo ancora la sua presenza, a tutti noi mancava molto. L’uomo che aveva gettato il seme per la nascita del pool era anche fisicamente imponente.

Pieno di vitalità, possedeva una grande esperienza in materia di mafia, parola che pronunciava all’antica con due effe: non diceva mafia, diceva “maffia”.

Era poco incline al compromesso, era duro e di tanto in tanto irascibile; un uomo tutto d’un pezzo, come si suol dire.

Per questo Cosa nostra lo riteneva molto pericoloso.

Ricordo il suo passo pesante che risuonava nel corridoio il pomeriggio, quando a volte veniva a vedere se ci fosse ancora qualcuno.

Apriva la porta di una delle nostre stanze e, constatato che il collega era intento sulle carte, quasi si scusava, chiarendo che non era sua intenzione controllare la nostra presenza in ufficio ma solo accertarsi se, per caso, non avessimo dimenticato le luci accese...

Il giorno della sua uccisione ero a Trabia, nella casa al mare. Mi stavo facendo la barba e, informato da un amico dell’accaduto, corsi subito a Palermo. Ricordo che Falcone era in Thailandia per una rogatoria.

Come ho raccontato, alla strage sopravvisse Giovanni Paparcuri, autista di Falcone ma quella mattina addetto alla guida dell’auto blindata assegnata a Chinnici. Paparcuri riportò ferite gravissime delle quali, a tanti anni di distanza, patisce ancora le conseguenze.

Il giorno del funerale, terminata la funzione religiosa, mentre colleghi portavano sulle spalle la bara, io li precedevo reggendo, con le mani tremanti per la commozione, il “tocco” di Chinnici posato su un cuscino di velluto.

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