Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del “Processo alla Sicilia”, il libro che raccoglie trentacinque inchieste di Pippo Fava, direttore de “I Siciliani”, ucciso con cinque colpi di pistola il 5 gennaio del 1984 a Catania


Fra tutte le cittadine finora incontrate Sciacca è forse quella che reca la testimonianza più civile, un esempio cioè di equilibrio fra le varie energie sociali, le attività, le ambizioni, la ripartizione della ricchezza e lo sfruttamento razionale della stessa.

Già la composizione stessa della popolazione è un esempio di questo equilibrio: i trentacinquemila abitanti di Sciacca sono suddivisi in tre grandi settori sociali, che stranamente corrispondono anche a tre stratificazioni diverse dell’abitato. In basso, nel quartiere adiacente al porto, in un groviglio di piccole strade e di vecchie abitazioni, vivono i lavoratori del mare, cioè i marinai, i pescatori, gli addetti portuali, i carpentieri dei minuscoli cantieri navali, gli operai delle piccole fabbriche del «pesce azzurro».

E’ quella parte della popolazione che vive più precariamente. Una volta la marineria a vela di questo litorale era la seconda della Sicilia, ma ora i banchi delle sardine si sono rarefatti, bisogna inseguire il pesce fin nei fondali dell’Africa del Nord, e i velieri sono vecchi, a dieci miglia dalle loro coste le corvette della polizia tunisina sparano. Tenacemente però migliaia di uomini si rifiutano di disertare il mare, continuano a lottare, e questo garantisce il lavoro ad altre migliaia di persone nei piccoli bacini, negli stabilimenti per il pesce in scatola.

A metà della collina, nella zona più silenziosa e deserta della città, risiede la maggioranza degli agricoltori, dei piccoli coltivatori, dei contadini e braccianti, dei grandi proprietari terrieri, la vera forza della popolazione è questa: la pazienza, la costanza con cui si continua amorosamente a coltivare la terra, a studiare le trasformazioni agrarie più razionali, a modificare le colture, ad intensificarle. C’è un elemento economico, che appare quasi irreale, tanto crudelmente sottolinea la devastazione alla quale abbiamo abbandonato la terra in quasi tutta l’isola, cioè la nostra collettiva stupidità politica.

Siamo in una provincia le cui campagne sono letteralmente spopolate, la cui terra è miserabile, senza un albero, un canale d’irrigazione, ma qui a Sciacca la terra vale invece venti milioni di lire a salma, cioè circa sette milioni ad ettaro. In questa terra infatti scorre l’acqua, e non si produce grano, ma arance, uva, olio, pomodori, frutta, primizie di ogni genere.

L’acqua arriva dovunque in tutta la plaga di Sciacca, per tutti gli undicimila ettari irrigati dalle acque del Pordoi e del Belice, e dalle miriadi di canali, pozzi, serbatoi costruiti in ogni dove. Basta fare un calcolo elementare: diecimila ettari di terra irrigata, che valga magari solo cinque milioni ad ettaro, significa un capitale sicuro di cinquanta miliardi. Ammettiamo che il reddito netto sia dell’otto per cento: vuol dire che la plaga agricola di Sciacca produce una cifra oscillante sui cinque miliardi.

Quando ci si chiedono le ragioni della miseria di una città, o i motivi del suo continuo fallimento civile, bisognerebbe ben scrutare al di là di quella che è la sua facciata umana, oltre la decorosa prosopopea dei suoi borghesi ed i fastosi discorsi dei suoi uomini politici, e cercare quello ch’essa veramente produce di cose concrete. E capire perché non è in grado di produrne, perché la terra è arida, perché non c’è uno stabilimento, e non c’è nemmeno un industriale che venga a costruirne.

Lassù, in cima alla collina di Sciacca, abita infine la borghesia: ci sono le scuole, gli alberghi, le terme, gli uffici, i locali pubblici, i cinema, i negozi. Qui abitano i professionisti, gli impiegati, i commercianti, i medici, i giudici, gli artigiani della ceramica, i professori, coloro che assicurano i servizi, le tradizioni culturali, l’ordine, la buona educazione e la rispettabilità di tutti.

Sono a loro volta soltanto un terzo della popolazione, che è la percentuale giusta che una città (non soltanto una piccola città) dovrebbe consentirsi nel suo corpo sociale. Ed infatti lavorano tutti, poiché sono nella proporzione equilibrata rispetto alle reali necessità e riescono altresì ad esprimere il loro prestigio borghese.

Sciacca è sede di Corte d’assise, ha un foro penale di circa ottanta avvocati, tutte le scuole vi sono rappresentate, dalla scuola d’arte famosa per le sue ceramiche, ai licei, agli istituti tecnici industriali ed agrario, e fra le altre anche una scuola di attività marinare e un istituto alberghiero che è l’unico in tutte le province meridionali dell’Isola.

Nei circoli di cultura si gioca a carte con buona moneta sonante, ma i sodalizi rispettano anche la loro destinazione intellettuale con conferenze, incontri, dibattiti scientifici; esiste un galleria d’arte nella quale sono frequenti le rassegne di pittura e scultura, c’è una magnifica biblioteca, con cinque sale di lettura, ricca di ben tredicimila volumi, alcuni dei quali in esemplare unico ed autentici capolavori dell’arte libraria. Per i turisti ed i reumatizzati che frequentano le Terme, c’è anche un night di buona classe.

E le strade sono pulite, l’illuminazione allegra, la gente cortese. All’ufficio tecnico del Comune sono pendenti circa mille progetti per la costruzione di nuovi palazzi: è un dato che va meditato con rispetto, poiché non sono edifici da costruire e pagare con mutui di banche o con stipendi che lo Stato paga ad una pletora di suoi burocrati (come in tanti altri centri) ma da costruire e pagare con denaro più solido, più guadagnato, con una ricchezza cioè che nasce da una autentica produzione di beni.

Sciacca è una piccola città quasi sconosciuta a tutti i siciliani (il forestiero che, partendo da Messina, volesse arrivarci in auto, impiegherebbe un giorno intero; ed altrettanto in treno).

Tuttavia il suo destino propizio va meditato poiché esso non sembra determinato da una serie di circostanze, altrove irripetibili, quanto da un concorso di volontà precise: la rarissima benevolenza politica (così insolita da apparire sospetta) che ha consentito di realizzare quelle due dighe e di irrigare tutta la vallata; poi la pazienza, l’ostinata devozione con cui tanta gente è rimasta legata alla tradizione marinara; ancora la fiducia, il sacrificio di coloro che sono rimasti fedeli alla terra; infine la tenacia quasi snobistica di giocare quel ruolo di capoluogo di cui ancora si dolgono d’essere stati depredati da Agrigento.

Anche queste potrebbero essere tuttavia delle coincidenze (il favore politico, la terra grassa, le tradizioni marinare) se non ci fosse a meritarle una qualità umana insolita per qualsiasi popolazione siciliana, cioè la fiducia reciproca, la volontà di lavorare insieme, di unire il guadagno e soprattutto il rischio.

Lo testimoniano le cooperative fra pescatori, che da soli sarebbero costretti a rastrellare le misere coste siciliane, ed a gruppi di lavoro riescono invece a tenere il mare per venti giorni o un mese e battere i fondali a cinquecento chilometri di distanza; lo testimoniano le cantine sociali e soprattutto le iniziative industriali che stanno lentamente popolando la piccola pianura sottostante la città: un mobilificio, una fabbrica di confezioni, due cartiere, un’industria di laterizi.

Il capitale è tutto locale. Appartiene a siciliani i quali non hanno aspettato che l’iniziativa industriale venisse da altrove. Hanno cominciato loro; invece di tenere i soldi nelle banche fabbricano armadi, vestiti, mattoni forati, carta da imballaggio, barattoli per la conservazione del pesce e fanno lavorare un migliaio di persone. Anche questo serve a mantenere quell’equilibrio della struttura sociale che altrove nemmeno i mastodontici insediamenti industriali, isole di ferro in mezzo al deserto, sono riusciti a creare.

Scendendo dagli altipiani riarsi, dai paesi sprofondati entro le valli di pietra, dalle campagne senza un filo d’erba, si scorge improvvisamente questa lunga vallata verde e laggiù Sciacca che scivola bianca verso il mare. Sembra una cittadina della riviera ligure con le sue balconate marine, i suoi palazzi appesi alla collina, le strade silenziose, il porto gremito di minuscoli bastimenti.

Sciacca è un testimone lieto, ma anch’essa è sola in questo fondo dell’Isola. Quindici o venti chilometri alle sue spalle la terra è coltivata ancora con l’aratro di legno, decine di migliaia di uomini ignoranti, infelici, abbandonati, aspettano di possedere le cinquantamila lire necessarie per espatriare

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