Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo a questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Per una ventina di giorni pubblichiamo le inchieste de “I Siciliani”, ringraziando la Fondazione Fava che ci ha concesso la divulgazione


Le partenze degli emigranti per l’Australia avvengono ogni quattro mesi con un transatlantico che parte da Napoli e si ferma poi ventiquattr’ore nel porto di Messina.

Gli emigranti arrivano due giorni prima da tutti i centri della Sicilia e vengono alloggiati per una notte negli alberghi a cura del comitato internazionale delle migrazioni europee e del consolato australiano il quale controlla tutti i documenti: cioè il passaporto, il certificato medico e il contratto di lavoro che non può avere mai validità inferiore ai due anni.

Se l’emigrante dovesse venire meno ai patti dovrebbe pagarsi di tasca sua il viaggio di ritorno in Italia.

Considerato che sono quasi sempre braccianti o manovali che viaggiano con tutta la famiglia e non possono certo spendere seicentomila lire a testa per pagarsi il biglietto di ritorno, appare chiaro che il contratto di lavoro va sempre ed implacabilmente rispettato. In media, ogni quattro mesi, duemila siciliani chiedono di emigrare in Australia.

Tutti coloro che presentano la domanda vengono convocati anzitutto per la visita medica poiché all’estero vengono accettati soltanto italiani che abbiano buona salute e che possano dunque sicuramente rispettare il contratto con il datore di lavoro. Successivamente i candidati emigranti vengono sottoposti ad una specie di esame selettivo per accertare le attitudini, l’onestà, l’intelligenza e lo stato culturale del bracciante o manovale.

Questo esame che l’ambasciata australiana chiama euforicamente intervista, viene condotto in lingua inglese. Poiché si tratta quasi sempre di gente che non riesce nemmeno a parlare un corretto italiano è facile immaginare lo spettacolo di questa intervista.

Da una parte tre funzionari australiani che pongono domande da test psicologico-attitudinale e dall’altra il contadino o manovale che cerca di dare risposte affannose in una lingua ancora sconosciuta. Non si sa come, dopo questo esame, il trenta per cento dei candidati vengono selezionati e ricevono, dopo qualche giorno, una lettera solenne che comincia: «Lieti di aver preso in considerazione…»

Ho visto partire gli emigranti a bordo di una di queste navi. Essa era arrivata durante la notte ed era affiancata al molo per tutta la sua lunghezza. Sulla banchina gli emigranti si riconoscevano subito: a piccoli gruppi venivano fuori dall’ufficio della dogana e subito si incantavano a guardare la grande nave bianca che sovrastava il molo.

Più che tristi per il distacco imminente sembravano impauriti dalla vastità delle cose nelle quali si trovavano improvvisamente coinvolti: la folla sconosciuta degli altri partenti, la mole gigantesca del transatlantico, la sensazione oscura che questo viaggio così lungo potesse diventare un distacco definitivo da tutte le cose fin’allora conosciute e che sembravano le sole possibili della vita.

Tuttavia, forse per una musica di radioline e per lo splendore di quella nave, sul molo sembrava ci fosse una strana aria di allegria. Prima che la grande nave partisse riuscii a fare tre interviste. La prima con un giovane il quale stava seduto su una boa della banchina, assorto a guardare il mare. Era molto esile, con due piccoli baffi chiari, i capelli ondulati ed una giacca di velluto. Aveva due piccole mani bianche, quasi femminili. Gli chiesi se fosse un emigrante e mi fece un cenno affermativo: «Mi chiamo Giovanni Baudo, vengo da Mazzarino e vado a Sidney!»

«Qual è il suo mestiere?»

«Barbiere! Ho anche la licenza ginnasiale ma non mi serve a niente. Del resto non farò nemmeno il barbiere a Sidney!»

«Sa fare qualche altro lavoro?»

«Niente! In Australia vogliono solo contadini e manovali. Ho firmato perciò un contratto da manovale!»

«Perché parte?»

«Perché guadagno solo ottomila lire al giorno!»

«Lei è molto giovane, avrebbe potuto aspettare, tentare…»

«Non potevo più aspettare. Ho fatto tutti i tentativi… il commesso di notaio, il dattilografo… Ho fatto anche il cantante in una orchestrina, so suonare la chitarra. Ho fatto persino il galoppino di un deputato regionale che mi aveva promesso un posto. Niente…» Da qualche istante si era avvicinata una ragazza con un visino triste ed i capelli sciolti sulle spalle.

Aveva un bambino in braccio e il giovane sorrise: «Questa è mia moglie! Ha firmato anche lei un contratto per lavorare in una lavanderia di Sidney. Io volevo partire solo ma lei non voleva separarsi ed allora ho pensato che è meglio così. Si soffre di meno…»

«Avete paura?»

«No, Non abbiamo voluto nemmeno che ci accompagnassero i nostri parenti. Mia moglie è già tutta la settimana che piange. Ora basta! L’importante è di restare insieme e potere avere il bambino con noi senza fargli sopportare privazioni…»

«Quali speranze avete?»

«Non lo so! Vivere…»

Una storia appena illuminata dal sorriso di quella sposa bambina. Una storia come tutte le altre che avevo ascoltato altre volte, da altri emigranti: una vita umana che comincia a fallire, un gesto di ribellione… Ma non era questo che io cercavo fra quella folla. Forse era sbagliata la mia maniera di fare le domande, sbagliate le cose che chiedevo. Ci doveva essere dell’altro nell’animo di quella gente.

Allora pensai di fare le domande come si faceva una volta, o meglio come taluni sognavano di fare domande agli emigranti. Come avrebbe potuto farle De Amicis accostandosi ad una nave che portava italiani in un altro mondo. Decisi di scegliere una coppia non più giovane, lui con una grande giacca di pelle nera e un curioso baschetto calato sul cranio, lei una donna pallida, un po’ grassa, triste e tutta vestita di nero.

Stavano seduti su una panca di legno ed avevano cinque figli a loro volta seduti immobili sui bagagli. Solo il più piccino ogni tanto correva qua e là, prendendo a calci una scatola di fiammiferi. Feci delle domande vergognose ed essi mi risposero: «State per dare l’addio alla Patria…»

Silenzio! «Cosa provate in questo momento?»

«In questo momento di che?»

«In questo momento che state per dare l’addio alla Patria?»

La donna mi rivolse uno sguardo spento di collera.

«E la Patria cos’è? La democrazia cristiana…»

«La Patria è il vostro paese, la gente che parla come voi, gli amici, la tomba di vostro padre…» «Mio padre è vivo! E un poco rimbambito ma è vivo!»

«I vostri amici…»

«Belli cornuti! Per prestarci centocinquantamila lire ci hanno fatto pagare il trenta per cento di interessi…»

«Il vostro paese…?»

«Non c’è più. Il terremoto lo ha fatto sprofondare. Meglio così! Sono rimaste sotto le pietre anche molte persone malvagie. Almeno il terremoto non fa ingiustizie…»

«E dove andate ora?»

«In Australia. Dove potevamo andare? Perché: lei non lo sa che questa nave va in Australia?»

Il marito fece un sorriso accomodante: «Forse il signore non lo sapeva che la nave va in Australia…»

La donna ebbe un risolino: «Lo sapeva, lo sapeva…»

«Sì, lo sapevo! Avrei voluto però sapere anche cosa provate in questo momento…»

«Niente!»

«Completamente niente!»

«Niente!»

Intervenne il marito con molta educazione: «Perché, scusi, la patria cosa prova a vederci partire’! Si sta levando una preoccupazione…»

«E tornerete?»

Ancora una volta il marito fece un sorriso timido: «Non si possono sapere le cose del mondo…»

Ma la donna col pollice fece un segno in aria: «Mai! Prima di salire a bordo faccio un segno di croce su questa terra!»

Di colpo, con un sorriso di rabbia si rivolse al marito: «Avanti tu, perché stai muto senza parlare? Quindici anni di martirio da quando ci siamo sposati. Gliene hanno fatto da cani e lui sempre muto, senza ribellarsi. Ha fatto il bracciante, il muratore, il facchino per scaricare i camion, ma ogni lavoro durava due mesi e poi finiva, ha fatto anche lo spazzino a cinquemila lire al giorno… era malato di ulcera allo stomaco, non poteva nemmeno mangiare, gli usciva sangue dalla bocca.

Un giorno stava morendo e lo portai all’ospedale. Lei capisce che significa un padre di cinque figli che sta per morire…? Bisognava operarlo subito, ma c’era lo sciopero all’ospedale, mancava anche la luce elettrica, il medico mi disse: “Signora che fa: lo operiamo con una candela? Io che ci posso fare…?” Lei mi spiegava che cos’è la patria: e perché questa non è patria…? Uscì dall’ospedale con un buco nello stomaco e se ne dovette tornare subito a fare il manovale, un giorno lo portarono a casa di nuovo mezzo morto, ogni sforzo che faceva si apriva la ferita. E questa lei me la chiama umanità…?

Domandammo aiuto a tutti: la prefettura ci dette cinquantamila lire, un prete ci fece regalare un pacco di pasta e di scatolette… Lei sa cosa mi rispondevano: “Come si fa ad avere cinque figli quando non si possono mantenere?” Secondo la patria questi cinque bambini non dovrebbero essere vivi…» Afferrò il bambino più piccolo in braccio: «Lei mi deve dire se non è bello! Guardi che faccia di sole…!» In quell’istante ci fu un suono di sirena e la donna si alzò in piedi, improvvisamente pallida. Il marito disse: «Ora chiamano l’appello. Avanti, coraggio…»

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