È l’unica provincia del Sud che abbia superato il livello medio del reddito di tutta la nazione. Un siciliano guadagna ogni anno soltanto 296 mila lire, un italiano in media ne guadagna 450 mila. Un siracusano 456 mila. Qual è la ragione di tutto questo?
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del “Processo alla Sicilia”, il libro che raccoglie trentacinque inchieste di Pippo Fava, direttore de “I Siciliani”, ucciso con cinque colpi di pistola il 5 gennaio del 1984 a Catania
Una fila di palazzi bianchi e gialli in alto, più in basso una fila di alberi giganteschi, cubici. Quaggiù un chilometro di viale deserto e subito il mare: azzurro, immobile, circondato dalle colline come un lago.
Anche il mare è vuoto; è passato cinque minuti fa un piccolo piroscafo nero, pieno di tonfi, di tremolii, è sbucato improvvisamente da sinistra, dietro la vecchia fortezza che sta in cima al porto, sembrava pilotato da un equipaggio in collera, che stesse inseguendo qualcuno, tanto ansimava; invece si è gettato subito fra i due piccoli moli, affranto, come su una sdraio. È scomparso. C’è una distesa deserta di tavoli da bar e il vento vi fa sbattere sopra i tovaglioli.
È un vento curioso, sembra un annuncio di refrigerio, ma ti si rapprende subito addosso, è lo scirocco, ti si squaglia sulla pelle in milioni di goccioline come la gomma arabica, pantaloni e camicia si appiccicano, ogni cinque minuti te li devi scollare con un movimento delle spalle.
Migliaia di uomini a Siracusa hanno questo tic, questo continuo trasalimento; i siracusani sono gli uomini più quieti e remissivi della Sicilia eppure, a cagione dello scirocco, sembrano continuamente in ansia. Niente è cambiato. I palazzi, il mare deserto, il silenzio, le piccole strade rettilinee che sbucano da quel palcoscenico di chiese e palazzi e precipitano di colpo verso il mare, i cortili estatici, disabitati, le porte e le finestre chiuse.
Poi senti un rumore gentile e strano, uno schiocco, e scopri che laggiù in fondo c’è una luce verde ed un bigliardo. Ce n’era uno così in via Roma, scuro e misterioso come un antro, con quella macchia verde di luce, e vi giostrava un tale Rocco Penna, azzimato, flessuoso, rideva sempre, aveva una faccia da Rodolfo Valentino, delle mani flebili, lente, con un’unghia lunghissima sul mignolo della sinistra, e faceva trecento carambole alla volta sulla stecca.
Da questo lungomare vidi per la prima volta i soldati tedeschi: un reggimento della Luftwaffe. Non avevamo visto mai niente di simile. Avanzavano e cantavano lungo il viale deserto, parevano una muraglia grigia e azzurra, erano altissimi, rosei, tutti biondi; non avevamo mai sentito nemmeno canzoni così violente.
La loro sincronia era assoluta, nel passo, nella statura, nelle spalline, nelle dita, negli occhi; avevano una mezzaluna di ferro sotto gli stivali, come i cavalli, di colpo smettevano di cantare e si sentiva il tonfo del ferro sul viale deserto; uno-due, uno-due, contavano dieci passi, e tutti d’un colpo, ricominciavano a cantare.
I militi della Milmart, un po’ sbracati, con i capelli grigi, le fasce, gli scarponi, la baionetta che penzolava sulle natiche, il berrettone nero, li guardavano estatici. Il primo aereo tedesco che arrivò lo presero a cannonate. In molti erano padri di famiglia di quasi cinquant’anni, sottratti ai loro vecchi mestieri di falegnami, barbieri o pizzicagnoli, giocavano a carte nelle camerate, avevano visto solo idrovolanti della croce rossa sulla baia di Siracusa e quando videro quell’aeroplano. nero, lugubre e basso, corsero ai cannoni e cominciarono selvaggiamente a perseguitarlo.
Erano le quattro del pomeriggio ed allo stadio Vittorio Emanuele si giocava la partita Siracusa-Cosenza. Il centromediano era Gipo Viani, una specie di armadio, già un po’ calvo, con le enormi gambe a cavallerizzo, nei raggio di cinque metri sfracellava pallone, avversari ed arbitro.
Andavamo in barca dall’isola alla borgata per vedere la partita che era già cominciata, quando passò quell’aereo tedesco che cercava scampo alle equivoche cannonate della Milmart. Un signore pallidissimo e autoritario si alzò in piedi a prua della barca: «Tutti in acqua!» ordinò; le donne cominciarono a piangere, la barca sbandava, il barcaiolo afferrò un remo come una clava: «Fermi o vi spacco in due - urlò - Io non so nuotare!».
Il traghetto delle barche c’è ancora: partono in mezzo alle alghe che costeggiano la linea ferroviaria e arrivano al centro della vecchia città, quasi a sottolineare la solitudine dell’isola, nobile, incorrotta, malinconica, gremita di rovine preziose e di vecchi palazzi cadenti, il suo distacco dalla misera borgata che si estendeva sulla terraferma, approdo dei cafoni che venivano dalle campagne e che la città rifiutava di accogliere, ed ora invece rigogliosa di palazzi e piccoli grattacieli, cinema, bar, impianti sportivi, ville, giardini fin quasi la costa di Priolo.
Dal centro dell’isola alla borgata ci si impiegano due minuti di auto, cinquanta secondi in bicicletta, e nemmeno cinque minuti a piedi, ma migliaia di persone usano ancora l’antico traghetto delle barche: trecento metri di acqua immobile e verde, venti persone sedute lungo i margini della barca, dall’una parte e dall’altra a guardarsi in silenzio, vecchi signori con i capelli bianchi, donne di sessant’anni che vanno ai mercati, operai o scolari, studentesse col grembiule nero e le scarpe di corda.
Vecchia Siracusa dolce, morbida, silenziosa, bianca, malinconica, le vecchie stradine misteriose che dopo cento metri precipitano tutte incontro al mare, l’odore delle alghe fradice dovunque, i palazzi candidi, leggeri come la cartapesta, svuotati nelle fondamenta da milioni di grandi scarafaggi rossi, il «porto piccolo», verde e quieto, con l’erba nera che affiora dall’acqua, il «porto grande» azzurro, deserto e immobile come un lago, con il vapore che alle quattro del pomeriggio sbuca alle spalle della fortezza e subito scompare dietro il molo.
Sembra tutto identico ad allora. Hanno solo murato le porte dei ricoveri. Erano i ricoveri più strani del mondo: le catacombe dei cristiani, scavate duemila anni prima nel tufo, caverne lunghissime da una parte all’altra dell’isola, di una pietra tenera e gialla che si poteva scalfire con le unghie. Grondavano acqua da tutte le parti e diecimila esseri umani vi stavano ammucchiati fino all’alba, in camicia da notte, avvolti nelle coperte e l’uno a ridosso dell’altro; molti ragazzi furono concepiti lì dentro, nella ressa, per colpa di qualche Spitfire che veniva da Malta.
Qualcosa però c’è di diverso nell’aria. La sera, quando cade la nebbia dello scirocco, gli orli delle camicie si sporcano di un livido orlo giallastro. E contemporaneamente un odore nuovo disperde quello delle alghe che si putrefanno lungo tutte le scogliere della città: un sentore di uova marce, di ammoniaca, di petrolio che brucia, di polvere da sparo, di concimi, di tutte le scorie che le venti gigantesche ciminiere di Priolo bruciano giorno e notte. Il buon odore dei soldi moderni.
La verità è che qui tutto sta cambiando lentamente e questa immagine di città bianca, malinconica e immutabile è soltanto un fantasma della vecchia Siracusa che vive nell’animo di chi vi fece gli studi del liceo: le cose di allora, i colori, la passeggiata a mare deserta, i biliardi come lumini verdi nell’oscuramento della città, l’odore amico delle alghe, le immagini che si sedimentano nell’animo e tu credi di averle smarrite per sempre, anzi non ricordi più che esistessero e ti pare di ritrovarle intatte e che tutte insieme, l’una accanto all’altra, l’una dentro l’altra, compongano la facciata della città com’era una volta.
E invece non è che un dolcissimo fantasma. Ma forse la vera Siracusa non è questa città sull’isola, dove abitano appena trentamila persone che sembrano ancora quelle di una volta, i vecchi con i capelli candidi che vanno in barca, le grandi madri vestite di nero con la borsa della spesa sottobraccio, le minuscole studentesse dei licei, ma quell’altra città più grande, quasi invisibile, nella quale abitano invece ottanta o centomila persone, che scavalca la ferrovia, si inerpica sulla terraferma, in un mucchio di case terrose che diventano sempre più alte, più dense di colore e di neon, più allegre, più ricche di marmi, gremite di giovani, di automobili, alberghi, bar.
Ed è una grande città moderna che copre tutta la costa, si affaccia già sul promontorio di Scala Greca come un balcone su tutto il golfo pullulante di navi e stabilimenti. Questa città è l’avanguardia di tutto il Sud. Ecco, voltiamo la pagina. Di questa città che mi evoca solo sentimenti, debbo parlare soprattutto in numeri, poiché solo essi svelano cosa essa sia.
In Sicilia ogni mille abitanti circolano in media 63 automobili, e qui invece 70. Ogni siciliano spende in media quattromila lire per spettacoli ed i siracusani ne spendono cinquemila. In tutta l’isola, rispetto a quindici anni or sono, il numero delle abitazioni è cresciuto del settecento per cento: a Siracusa ogni cento vecchie abitazioni, ce ne sono addirittura mille di nuove.
In proporzione qui ci sono più televisori, camere da bagno, frigoriferi, apparecchi radio, motociclette che in qualsiasi altra parte del sud. I siciliani mangiano tredici chili di carne ogni anno, ed i siracusani quasi venti. Hanno più comfort e sono più nutriti. Qui persino gli analfabeti sono in percentuale infinitamente minore che a Catania, Palermo, Messina, Bari, Napoli, Catanzaro e in qualsiasi altra provincia del Meridione. Ed è l’unica provincia del Sud che abbia superato il livello medio del reddito di tutta la nazione.
Un siciliano guadagna ogni anno soltanto 296 mila lire, un italiano in media ne guadagna 450 mila. Un siracusano 456 mila. Qual è la ragione di tutto questo? È un interrogativo al quale va data una risposta completa, poiché Siracusa è l’unico luogo dove il Sud depresso, infelice, ignorante, disperato, è riuscito a sfondare con una spallata la sua prigione e ad affacciarsi al livello della civiltà europea.
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