In tutto 138 morti, 113 arresti, 2.500 agenti coinvolti. Sono i numeri dell'operazione Containment, messa in campo lo scorso 28 ottobre, con l'obiettivo di assestare un duro colpo al Comando Vermelho, una delle organizzazioni criminali più potenti del Brasile. La calciatrice racconta un altro lato del quartiere. Come il progetto Street child united Brazil, che da 30 anni offre un ambiente protetto in cui i bambini possano giocare, crescere «e diventare brave persone»
Le foto dei cadaveri messi in fila a piazza San Luca, a Rio de Janeiro, hanno fatto il giro del mondo. In tutto 138 morti, 113 arresti, 2.500 agenti coinvolti. Sono questi i numeri dell'operazione Containment, messa in campo lo scorso 28 ottobre, con l'obiettivo di assestare un duro colpo al Comando Vermelho, una delle organizzazioni criminali più potenti del Brasile, nelle favelas di Alemão e Penha, nel nord della città.
«Ma il Complexo da Penha è molto più di tutto questo - ci racconta Ana Clara Ferreira, calciatrice brasiliana che qui è cresciuta e ancora oggi vive e lavora -, mi rattrista vedere il quartiere al centro dell'attenzione per un motivo così triste. Qui abbiamo tanti progetti, tanti bambini con sogni meravigliosi, progetti sociali che hanno come obiettivo formare persone giuste, futuri atleti, insegnanti, cittadini. Vogliamo sì che la nostra comunità sia messa in evidenza, ma per l’educazione e le opportunità che esistono qui, non per i bagni di sangue».
Uno spazio sicuro
Ana Clara Ferreira è una calciatrice del Flamengo Beach Soccer, ma in passato ha giocato sul campo a undici per Fluminense, Vasco da Gama, Barra da Tijuca, Boavista e Bangu. «Gioco a calcio da quando avevo 7 anni - racconta - ma ho iniziato a prenderlo davvero sul serio intorno ai 13». Dal 2017 lavora con SCUB, Street Child United Brazil, un progetto che offre un ambiente protetto in cui i bambini possano giocare e crescere, un rifugio fatto di divertimento, amicizia e sport.
«È uno spazio sicuro per i ragazzi e gli adolescenti della comunità. Cerchiamo sempre di coinvolgerli con sport, giochi e lezioni, affinché si sentano speciali, felici e diventino brave persone. È un lavoro di amore e trasformazione», continua. Un lavoro fondamentale in una favela di oltre 100mila persone, controllata dal Comando Vermelho con metodi da milizia, da dittatura.
Lo racconta Carol Castro sulla Bbc, partendo da un esempio: nel 2020 nessun abitante del Complexo poteva indossare la maglietta del Chelsea. Il motivo? Lo sponsor dei Blues, il marchio di telecomunicazioni Three, un numero vietato nelle zone controllate dal Comando perché associato al Tcp, il Terceiro comando puro, il loro più grande rivale nel territorio di Rio. «Io vivo ancora a Penha. Crescere in una comunità, in generale, è molto impegnativo. Non si sa mai quale sarà il passo successivo quando si cresce in un posto come questo. Molte persone finiscono per rinunciare, per mollare, anche perché il governo ci volta le spalle».
Misurare l’impatto
Ma è in contesti del genere che lo sport può fare la differenza. In particolare il calcio. «Che per noi è amore, è fede, è unione: cose che fanno parte della nostra quotidianità - continua Ana Clara Ferreira -. E senza tutto questo, la gente qui non riesce a vivere». Sono trent’anni che il progetto SCUB offre spazi sicuri, opportunità di crescita e di relazione a tanti bambini a rischio. Lo fa con un semplice campetto in erba sintetica, sulla collina di Caracol, nel cuore di una comunità in cui le strade sono ogni giorno teatro di guerra tra narcotrafficanti e autorità.
Le organizzazioni per i diritti umani hanno definito «un massacro» l’operazione di fine ottobre, mentre per il governatore di Rio, Claudio Castro, del Partito Liberale dell’ex presidente Bolsonaro, è stata «un successo». Il sottosegretario all’Intelligence della polizia militare di Rio, Daniel Ferreira, ha invece riferito in audizione al Senato che l’impatto sulla rete criminale è stato «minimo».
Tutt’altro impatto, invece, è quello dello Street child united Brazil, che accoglie 80 bambini e bambine ogni giorno. «La partecipazione favorisce lo sviluppo personale di ogni ragazzo - si legge sul sito del programma -, proteggendolo dal rischio di violenza, sfruttamento e abusi, sviluppando competenze vitali e migliorando le opportunità di istruzione, formazione e occupazione attraverso attività calcistiche e di team building».
Una ricetta che Ana Clara Ferreira conosce bene, visto che su questo campo è stata bambina, allieva e ora allenatrice: «Per me il calcio significa tutto. Mi ha salvata e mi ha aperto porte verso luoghi dove non avrei mai immaginato di poter entrare. Sono eternamente grata a questo sport». Una porta verso un altro mondo, lontano dalla strada, dai massacri, dal narcotraffico. Una porta verso un futuro migliore. «Il calcio ha un ruolo importante all’interno della comunità, è il primo sogno dei bambini di qui e attraverso lo sport riusciamo a educare sotto molti aspetti: disciplina, rispetto, unione. Lo sport salva vite. E io ne sono la prova».
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