Secondo i media americani, gli attacchi potrebbero essere imminenti. Ci sono già otto navi da guerra statunitensi nell’area. Ma Trump per ora smentisce attacchi, mentre Maduro chiede aiuto a Putin. L’Onu: i raid Usa nei Caraibi sono «inaccettabili». E in Brasile la polizia ha condotto un blitz contro i narcos che fatto 130 morti
Un attacco che sarebbe «questione di ore». Donald Trump ancora smentisce, ma le ultime notizie, riportate dal Wall Street Journal citando fonti anonime dell’amministrazione Usa, parlano di possibili raid contro obiettivi militari in Venezuela: porti e basi aeree considerate punti di contatto tra i cartelli e il governo di Nicolas Maduro.
E ancora: anche il Miami Herald sostiene, sempre sulla base di «fonti informate», che l’operazione sarebbe imminente, e che il suo obiettivo sarebbe quello di distruggere le installazioni militari utilizzate per il traffico di droga, che, secondo gli Stati Uniti, è guidata da Maduro in persona e gestita da membri di rilievo del suo regime.
Secondo le fonti del giornale di Miami, gli attacchi sono questione di «pochi giorni o addirittura ore». Interpellato in proposito, il presidente Usa però nega: ai giornalisti che gli chiedevano se abbia in mente un’operazione militare, Trump ha risposto: «No».
Che la tensione sia altissima, al di là delle parole del tycoon, emerge anche da altri resoconti: secondo il Washington Post, Maduro ha chiesto aiuto a Mosca, Cina e Iran. Nella fattispecie, ha scritto una lettera a Putin chiedendo, tra le altre cose, un aggiornamento dei radar difensivi, la riparazione di aerei militari e, potenzialmente, anche dei missili. Altre richieste sarebbero state rivolte a Xi Jinping, al quale Caracas avrebbe proposto una «cooperazione militare».
Acque internazionali
Di certo ci sono già otto navi da guerra statunitensi davanti alle acque del Venezuela, mentre la più grande portaerei americana (e le sue tre navi di scorta) si dirige verso il Mar dei Caraibi e i bombardieri si sono avvicinati allo spazio aereo venezuelano tre volte in due settimane. Nel frattempo, senza approvazione del Congresso, almeno 61 persone sono state uccise negli attacchi dell’esercito americano in acque internazionali contro imbarcazioni che, dice l’amministrazione Trump, «trasportavano droga».
Per il segretario di Stato, Marco Rubio, «il Venezuela è un narcostato guidato da un cartello della droga» e quella condotta è «una campagna contro i narcoterroristi, l’Al Qaeda dell’emisfero occidentale». Letterale. Una situazione che ha creato un forte allarme anche alle Nazioni Unite: i raid Usa contro imbarcazioni nel Mar dei Caraibi e nel Pacifico sono «inaccettabili», afferma il commissario dell’agenzia per i diritti umani Volker Türk, che chiede l’apertura di un’inchiesta.
Ma quella della “guerra alla droga” è una lunga storia, con vari risvolti militari. Il caso più clamoroso è stato quello di Manuel Noriega. Il generale che comandava Panama e il suo canale era stato per decenni un fedele alleato degli Usa. Poi, alla fine degli anni Ottanta, fu accusato prima dal governo e poi dalla giustizia americana di essere al centro del traffico di cocaina.
Il 20 dicembre del 1989 Bush senior annunciò in televisione l’invasione di Panama, giustificandola con la volontà di combattere il «narcotrafficante» Noriega. Erano gli anni dell’eroina, degli zombie in giro per le strade delle città. La parola droga suscitava terrore perché associata a quelle immagini. Poco importava che quella di Noriega al massimo fosse cocaina, allora droga delle élite, mentre a uccidere era stata l’eroina. Oggi è solo cambiata la sostanza.
Anche oggi l’operazione militare in Venezuela, il primo paese al mondo per riserve petrolifere accertate, è associata alla paura per gli americani. «Queste droghe che entrano negli Usa hanno ucciso 300mila persone l’anno scorso», ha dichiarato Trump parlando degli attacchi alle barche venezuelane. Falso.
I morti per overdose l’anno scorso negli Stati Uniti sono stati 80mila secondo i dati ufficiali (Us Centers for Disease Control and Prevention). E, di questi, il 60 per cento è stato causato dal Fentanyl o da oppioidi sintetici, non dalla cocaina. Perché quindi far saltare in aria 61 persone in acque internazionali e piazzare davanti alle coste venezuelane la portaerei più importante della marina americana? Perché ipotizzare addirittura un’invasione?
Nell’immaginario comune, nei video che girano sugli Stati Uniti, il Fentanyl è diventata la nuova eroina. Da una decina di anni, sempre di più, sono tornati gli zombie negli Usa. Ed è di loro che parla Trump quando dice che «se non le uccidiamo», le 61 persone fatte finora saltare in aria in mare aperto, «muoiono decine di migliaia di persone americane». La lotta alla droga, intesa come lotta a chi uccide tramite la droga, può arrivare a giustificare violazioni totali del diritto internazionale. Perché è una battaglia che fa aumentare i consensi.
Lo pensa evidentemente Trump, ma non è l’unico. Martedì 28 ottobre il governatore dello Stato di Rio de Janeiro, Claudio Castro, del Partito Liberale di Jair Bolsonaro (l’ex presidente è stato condannato in primo grado a 27 anni per tentato golpe ed è agli arresti domiciliari), ha autorizzato un’operazione anti narcos da record.
La più violenta nella storia dello Stato. Più di 2.500 uomini sono entrati sparando nelle favelas di Alemão e Penha, dove vivono quasi 300mila persone. Oltre 130 i morti finora accertati, di cui quattro agenti. Alcune delle vittime sono state trovate con la testa mozzata, molte sono state uccise con un colpo alla nuca. I corpi sono stati disposti in fila per le vie delle baraccopoli, le immagini hanno fatto il giro del mondo.
L’obiettivo dell’operazione era il Comando Vermelho, una delle principali fazioni criminali del paese: «È un’operazione dello Stato contro i narcoterroristi», ha detto Castro ribadendo la linea Trump. Le autorità hanno detto di aver sequestrato mezza tonnellata di cocaina, ma di non essere riuscite a catturare Edgar Alves Andrade, leader del Comando Vermelho.
Amnesty ha definito il raid un «clamoroso fallimento» e ha chiesto un’indagine federale indipendente sull’uso della forza da parte della polizia brasiliana e sulle esecuzioni extragiudiziali. «È una mancanza di rispetto per il diritto internazionale, i diritti umani, la Costituzione e tutta la legislazione brasiliana», ha dichiarato la direttrice di Amnesty Brasile.
Questione di consensi
Ma perché un politico decide di fare una cosa del genere, consapevole delle critiche che subirà e delle possibili conseguenze penali? Perché la lotta alla droga, anche se realizzata con metodi brutali, in qualche caso può portare consensi. Esempio lampante è quello di Rodrigo Duterte, ex presidente delle Filippine. Da marzo del 2025 è in carcere nei Paesi Bassi perché la Corte penale internazionale lo accusa di crimini contro l’umanità per il ruolo avuto nella cosiddetta “guerra alla droga”. I giudici della Cpi lo considerano responsabile di decine di omicidi commessi da suoi sottoposti tra il 2011 e il 2019.
Duterte non si è mai vergognato della violenza usata, anzi ha spesso rivendicato il pugno duro. E molti filippini tuttora lo amano per questo. La prova? A maggio, mentre lui era già in carcere all’Aia, i quasi 2 milioni di abitanti di Davao lo hanno eletto sindaco della città. Un particolare che non dev’essere sfuggito né a Trump né al governatore di Rio.
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