In un paese dove la pace è una parola fragile, il progetto - partito per aiutare le persone senza casa e allargato poi ai migranti, con la presenza di psicologi, mediatori, insegnanti di inglese o professionisti che aiutano a ottenere un documento - è un laboratorio di convivenza. Nazionalisti e unionisti, autoctoni e stranieri giocano insieme in un rettangolo di gioco che non appartiene a nessuno, e proprio per questo appartiene a tutti
C’è un campo dietro un muro grigio, nel cuore di Belfast, dove la pioggia cade con la costanza di una benedizione. Non è un campo da calcio nel senso comune: è una piccola isola di terra liscia, cintata da reti alte, dove si mescolano accenti e ferite. Qui non si gioca per vincere, si gioca per restare vivi. Si chiama Street Soccer Northern Ireland.
Il calcio, in Irlanda del Nord, non è mai stato solo un gioco. È stato confine, appartenenza, bandiera, paura. Ogni quartiere aveva i suoi colori, ogni squadra la sua memoria, e per decenni bastava un simbolo sulle maglie per scatenare una battaglia. Poi, un giorno, qualcuno ha deciso di cambiare la direzione del pallone. Ha capito che se si poteva morire per un gol, si poteva anche rinascere con lo stesso gesto.
Street Soccer NI nasce così, nel 2009, dentro un ostello per senzatetto di Belfast. L’idea era semplice e sovversiva: usare il calcio come linguaggio neutro, o meglio, come linguaggio comune. All’inizio erano uomini soli, nordirlandesi in difficoltà, ex detenuti, disoccupati, persone con dipendenze. Poi sono arrivati i migranti: siriani, somali, afghani, ucraini. Gente che aveva perso tutto tranne la voglia di correre dietro a una palla. Nessuno chiede da dove vieni, ma tutti ti chiedono in che ruolo giochi.
Fatica condivisa oltre la politica
Le partite si svolgono su campi di cemento o erba sintetica a Belfast, Derry, Coleraine. Si cammina tra case popolari e chiese spaccate dalle differenze: cattoliche e protestanti, nazionaliste e unioniste. Ma dentro la rete le divisioni si sciolgono, come la pioggia sull’asfalto. Un ex muratore di Shankill gioca accanto a un ragazzo di Falls Road; un migrante del Sudan segna e un nordirlandese con il passato marchiato dagli abusi applaude. Non c’è politica, solo fatica condivisa.
L’organizzazione è una charity, una fondazione laica e militante al tempo stesso. Ha una struttura precisa. Un piccolo staff operativo, guidato da persone che vengono dal sociale più che dallo sport. Coordinatori locali in ogni città, che organizzano sessioni gratuite di allenamento, tornei e soprattutto momenti di ascolto. Partner istituzionali che un tempo non si sarebbero parlati: la Irish Football Association e la East Belfast Mission, Sport NI e PeacePlayers. E, infine, una rete di imprese sociali - un servizio di traslochi, un negozio di mobili usati - che finanziano parte dei progetti e offrono lavoro ai partecipanti.
Ogni settimana, centinaia di persone attraversano queste linee invisibili. Alcune trovano una casa, altre un’occupazione, altre ancora solo un motivo per alzarsi la mattina. Ma tutte, almeno per un’ora, smettono di sentirsi fuori posto.
Una fucina di storie
Dietro ogni volto c’è una storia che non finisce mai nello stesso modo. C’è Alan, che per vent’anni ha dormito nei rifugi e ora fa da allenatore ai nuovi arrivati. C’è Musa, scappato dal Darfur, che insegna ai compagni qualche parola di arabo tra un passaggio e l’altro. Ci sono le donne di Derry che hanno creato la loro squadra, le Street Soccer Ladies, e raccontano come il campo sia diventato la loro terapia settimanale contro l’isolamento. Ci sono anche ex paramilitari che hanno deciso di restare, di farsi vedere, di tendere la mano invece di chiuderla a pugno.
Nessuno cancella il proprio passato, ma ognuno prova a scriverne un pezzo nuovo. Durante gli allenamenti non si sente parlare di religione né di partiti. Si parla di lavoro, di figli, di tempo libero, di cosa si mangerà dopo. Eppure, in ogni passaggio, c’è qualcosa di politico nel senso più alto: la possibilità di condividere un campo senza chiedere a chi appartiene. A Belfast è un atto rivoluzionario, più di qualsiasi discorso.
Non è assistenza, è coesistenza. Non è beneficenza, è riconciliazione. In un paese dove la pace è una parola fragile, Street Soccer NI è un laboratorio di convivenza. Nazionalisti e unionisti, autoctoni e stranieri giocano insieme in un campo che non appartiene a nessuno, e proprio per questo appartiene a tutti. Ogni partita diventa un piccolo trattato di diplomazia, ogni abbraccio una tregua firmata in silenzio.
Quando la partita finisce, non ci sono inni, né cori. Si sente solo il rumore delle scarpe che si trascinano via dal campo, sotto la pioggia. Ma tra quei passi c’è qualcosa che somiglia al suono della pace: un’eco piccola, umile, ostinata. Come un pallone che continua a rotolare, anche quando nessuno guarda più. E forse è proprio lì, in quel rotolare lento e testardo, che Belfast impara ogni giorno a non dimenticare, e a ricominciare da capo.
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