Open.ai fabbrica AI (Artificial Intelligence). È stata per otto anni una compagnia no profit in cui alcuni miliardari investivano puntando ai profitti del futuro con l’idea di vedere le AI del popolo, al servizio di chiunque sappia pigiare la tastiera e non dei soliti nerd e super manager pubblici e privati.

A partire dall’autunno sono apparse due creature e ora già si parla di sottoscrizioni azionarie per una trentina di miliardi. Un ordine di grandezza che ricorda l’affacciarsi di Facebook a Wall Street.

Perché tanto slancio degli investitori? Perché il consumatore globale, maturato all’uso di messaggistica, social e ricerca, è capace ormai di servirsi di ogni tipo di prodotto anche senza sapere nulla di quanto esiste nel vano del motore.

Ma vale la pena di sapere che il motore dei due prodotti di Open.ai, ChatGPT (Generative Pre-trained Transformer) e DAll-E2, che compone immagini a partire da semplici testi, è costituito da 12 miliardi di parametri. Una cifra gigantesca e un patrimonio concreto che rassicura l’investitore e serve gli utenti a titolo gratuito. Anche se i risultati non paiono perfetti e forse non è essenziale che lo siano. 

Ad esempio, abbiamo chiesto a DAll-E2 di comporci il quadretto di una principessa e un mendicante entro un contesto medievale ottenendo l’immagine smozzicata contenuta in questa pagina.

ChatGPT, dal canto proprio, formula risposte fin troppo forbite, come l’intellettuale da osteria che molto conosce e ama raccontarle, ma inciampa talvolta nel contenuto del bicchiere offrendo ai compagni di bevuta il modo di guardarlo “dall’alto in basso”, come accadeva fra gli spettatori della prima tv e Mike Buongiorno secondo la celeberrima analisi di Umberto Eco. Esistono comunque, questo è certo, tutte le premesse per l’uso diffuso delle AI di questo tipo.

Il rischio dell’“intelligenza” partigiana

Tant’è che si sono già allertati i professionisti dell’addomesticamento dell’istinto popolare. Le tre religioni abramitiche hanno radunato (si legge in un comunicato Vaticano del 10 gennaio) un monsignore, un rabbino e un esperto di sharia, per realizzare una “algoretica” (da algoritmo ed etica), ovvero uno sviluppo eticamente guidato dell’intelligenza artificiale.

Mentre in campo laico crescono i timori – da entrambe le parti dell’Atlantico – che anche l’intelligenza più bonaria sia tenuta per le orecchie. Tanto più che tra i fondatori e proprietari attuali di Open.ai c’è quel Peter Thiel (ipermiliardario e già inventore di Pay Pal insieme a Elon Musk) che, dopo una fase liberal durata un battito di ciglia, finanzia l’ultradestra a più non posso. 

Mentre in Cina, dove Baidu, la Google autoctona, ha presentato AI generative di testo e immagini dell’ordine di potenza di quelle americane, le autorità di regolazione hanno annunciato l’intenzione di disciplinare al più presto questi strumenti di “sintesi profonda” che incorporano, inevitabilmente, nei parametri di fondo le le visioni di chi li mette a punto.

Le posizioni di Microsoft, Google, Apple.

Al di là delle insidie e dei pericoli, conta che nell’impresa Open.ai sia entrata fin dal 2019, mettendoci un miliardo, Microsoft, che di sicuro bada al sodo.

Già ora fornisce col suo cloud le enormi capacità di calcolo che fanno girare AI di queste dimensioni e parrebbe intenzionata a investire 10 miliardi per controllare la società e sposare ChatGTP con Bing, in funzione di “assistente colloquiante”, così da attrarre utenti sul proprio motore di ricerca fornendo non, o non solo, i link, ma testi completi e rifiniti pronti al copiaincolla per i post sui social o i compiti di scuola.

Sotto attacco si sente Google che da tre lustri domina, al 90 per cento, la ricerca online e vede prendere forma un inseguitore non uguale, ma asimmetrico.

Da cui il dilemma: stare a piè fermo oppure tagliare la strada a Microsoft volgendo ad Assistente LaMDA (Language Model for Dialogue Applications) di cui si sanno meraviglie? LaMDA è, per chi non lo sappia, la creatura della quale quest’estate si parlava perché il suo Geppetto, subito licenziato da Google, s’era buttato a dire che dentro quei chip c’era ormai un essere senziente.  

Apple non s’agita coi motori di ricerca e non partecipa alla saga delle intelligenze chiacchierine, ma con l’AI è già passata ai fatti inserendo nei suoi iPhone la generatrice d’immagini Stable Diffusion, basata (cfr il sito stability.ai) su «apprendimento automatico profondo» nel senso che non si sazia facilmente, è lenta a imparare, ma in compenso non pretende quantità di risorse inverosimili.

È open source, quindi tanti sviluppatori contribuiranno a farla crescere per adattarla a vecchie e nuove applicazioni. Il punto fondamentale è che funziona con chip d’utenza e si sposa agevolmente con l’iPhone.  

L’Ue insegue le AI che tendono al molteplice

Nel 2023 entriamo avendo appreso che l’AI muove non all’eccezionale, ma al molteplice e già comprende prodotti d’ogni tipo. Ci siamo molto divertiti a utilizzarne alcuni, sperando che la Ue riesca a governare la materia affinché la corsa all’oro delle intelligenze artificiali non si risolva nella replica del dominio unilaterale di alcune Big Tech Usa. 

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