La Camera dei rappresentanti americana vuole, con voto bypartisan, che Byte Dance, la società cinese proprietaria di TikTok, venda l’app a una compagnia americana. Il motivo è che grazie ai dati dell’applicazione la Cina conosce a fondo i gusti di 170 milioni di americani e, all’occorrenza, è in grado di influenzarli.

Guarda caso, quel che gli Stati Uniti temono dalla applicazione cinese è esattamente il trattamento che da vent’anni ci riservano con le loro Facebook e similari che, notoriamente, ripongono i dati generati dagli utenti nei server americani, dentro i quali ficcano correntemente il naso Cia, Nsa, Fbi e potere giudiziario.

Un ministro cinese ha paragonato gli Usa a quelli che quando subiscono un gol si vestono da arbitro e squalificano il rivale (in questo caso sul terreno del mercato libero e concorrenziale).

La multa dell’antitrust

Intanto giovedì l’Antitrust italiana ha sanzionato TikTok con una multa da 10 milioni di euro: secondo l’autorità, non tiene in adeguato conto della specifica vulnerabilità dei minori. Il problema, soprattutto, è la diffusione di contenuti che possono «minacciare la sicurezza psico-fisica degli utenti» e che vengono riproposti sistematicamente agli utenti a seguito della loro profilazione con l’algoritmo.

Ma per quanto riguarda la partita che si gioca al di là dell’oceano, da italiani ed europei non resta che guardare cosa succede, sotto due profili:

  1. La reazione dei TikToker americani privati del giocattolo, ma anche (e sono parecchi) del reddito che gli proviene in veste di grandi o piccoli influencer;
  2. L’imbarazzo dei nostri governi, e di quelli sovranisti in particolare, nell’accettare che i nostri dati dimorino entro la giurisdizione americana.

La rivolta dei Puffi

Mentre si diffondo la voce che l’ex segretario al Tesoro, Steven Mnuchin, attualmente alla guida di un fondo d’investimento privato, sta lavorando all’acquisto di TikTok, l’attuale amministratore delegato, Shou Chew, si è rivolto proprio agli utenti. Chiedendo loro di farsi sentire: la legge rischia di dare «maggiore potere a un piccolo gruppo di altre società di social media», mettendo a rischio 300mila posti di lavoro negli Stati Uniti.

Tutto questo ricorda quanto successo in Italia nel 1984, quando furono sospese le trasmissioni di Mediaset perché la legge vietava ai privati la diretta nazionale, beffata dal Biscione, con un giro di cassette. Immediata fu la reazione degli spettatori che passò alla storia come “rivolta dei Puffi” perché i bambini privati del cartoon preferito iniziarono a soffrire e con essi i genitori che, elettoralmente minacciarono sfracelli. Col risultato che una nuova, fulminea, legge rese lecito quanto fino a prima era vietato e il Duopolio, nostro compagno trentennale, prese a prosperare.

Governi ossequianti

Quanto ai nostri governi (ci riferiamo all’insieme di quelli dell’Unione europea) c’è da ricordare che hanno da poco rinnovato, con la coda tra le gambe, un (chiamiamolo) accordo con gli Stati Uniti, in base al quale, trattandosi di rapporti fra paesi limpidamente democratici, i dati degli utenti di Google, Facebook, Amazon ecc. possono continuare a dimorare nei server in territorio (e dunque giurisdizione) americano e, di conseguenza, essere “spremuti” giornalmente dalle agenzie di sicurezza e spionaggio del paese.

L’Alta corte europea ha già sancito che questa asimmetria di sovranità contrasta con i princìpi di equità di mercato dell’Unione europea. Ma il Consiglio europeo, composto dai governi, non se la sente di ostacolare gli Usa nell’esercizio di un potere cognitivo che funge, evidentemente, da collante dell’impero.

Gli interessi americani

La morale della faccenda ci pare stia nel rivelare una qualche scompostezza (per dirlo leggermente) nel soft power americano che, per come l’abbiamo conosciuto ed apprezzato, era basato su competizione libera, rispetto alle arbitrarietà delle democrature e dei regimi autoritari.

A questo sfregio sul piano “ideale” s’accompagna, va da sé, il timore che i fremiti pro sicurezza nazionale degli alleati d’oltre Atlantico non coincidano più di tanto con i nostri. E ci espongano al rischio di finire noi stessi, presto o tardi, sotto tiro.

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