Esistono dei meme che girano sui social e che prendono in giro Meta per gli errori che fa la sua intelligenza artificiale, che è già incorporata in WhatsApp. Questo fa capire molto della percezione che abbiamo ormai dell’intelligenza artificiale: un modello che fino a qualche anno fa ci sarebbe sembrato avanzatissimo, persino fantascientifico, oggi ci sembra non reggere il confronto con lo standard che ha imposto ChatGpt o qualche concorrente dello stesso livello.

Il punto è che ogni modello linguistico ha come primo scoglio la quantità di dati di cui dispone per addestrarsi. E Meta ha potenzialmente un tesoro infinito: tutto ciò che decidiamo di condividere sui social e che può diventare una fonte primaria per dare linfa all’algoritmo. Lo ha confermato la stessa Meta, che a metà aprile ha annunciato che inizierà a utilizzare anche i post condivisi dagli utenti europei per migliorare il proprio modello linguistico.

L’indignazione che ha accompagnato questa notizia è un altro aspetto della percezione che abbiamo della tecnologia. Ci indigna poco, o ci indigna meno, il fatto che molte altre intelligenze artificiali già scandaglino il web alla ricerca di più dati possibili, spesso in maniera poco trasparente.

E, ancora meno, ci indigna il fatto che l’intero modello di business dei social si regga proprio sui contenuti che noi regaliamo loro. Non finiscono direttamente nelle fauci dei neuroni artificiali, almeno finora, ma alimentano comunque la macchina pubblicitaria che rende redditizie le piattaforme.

Questo non significa che la novità introdotta da Meta in Europa non sia un problema. Lo è soprattutto perché si lega ad altri nodi irrisolti: il rispetto della privacy, la gestione dei dati, l’asimmetria di potere tra utenti e piattaforme. Ma, per affrontarla davvero, serve partire da un altro concetto: se questa notizia ci sorprende ancora, forse dovremmo chiederci quante altre cose ci sfuggono. Quanti aspetti del digitale ci danneggiano ogni giorno senza che nemmeno ce ne accorgiamo.

Nel frattempo, gli indignati dei social si lamentano – sui social – di come si comportano i social, permettendo nel frattempo ai social di prosperare. Neppure Orwell avrebbe potuto immaginare un sistema così contorto, pieno di contraddizioni e doppi standard, ma allo stesso tempo così perfettamente funzionante. Un sistema che arricchisce pochissime persone, sfruttandone molte altre.

In Europa

Torniamo dunque alla notizia, così come si è diffusa nei giorni scorsi. Meta, che è l’azienda proprietaria di Facebook, Instagram e WhatsApp, ha dichiarato lunedì che inizierà a utilizzare i contenuti che saranno diffusi dagli utenti europei per addestrare i propri modelli di intelligenza artificiale. La stessa attività era già iniziata la scorsa estate, ma era stata sospesa dopo le proteste degli attivisti per la privacy dei dati.

Meta utilizzerà soltanto i post e i commenti pubblici che sono condivisi dagli utenti maggiorenni. Inoltre, potranno essere utilizzate anche le conversazioni con il supporto tecnico dei social network (presumibilmente per migliorare i sistemi di assistenza basati su algoritmi).

La decisione arriva in coincidenza con la diffusione anche in Europa dell’assistente Meta Ai (appunto quell’intelligenza artificiale che ora troviamo pre-caricata in WhatsApp e che non tutti sembrano apprezzare particolarmente).

La diffusione di questi sistemi era stata rallentata anche dalla normativa particolarmente stringente che esiste in Europa, e che già aveva frenato ad esempio l’integrazione dell’intelligenza artificiale negli iPhone. Ma c’erano state anche alcune denunce presentate da Noyb, il centro europeo per i diritti digitali, guidato dall’avvocato e dall’attivista austriaco Max Schrems.

Secondo Meta, l’aspetto legale è stato risolto in maniera favorevole, anche considerando che pratiche molto simili sono già adottate anche da altre aziende (come appunto OpenAi per ChatGpt o Google).

Meta ha fatto sapere che inizierà a notificare agli utenti dell’Unione europea questo utilizzo dei dati, includendo un link a un modulo tramite cui potranno opporsi in qualsiasi momento. E tutte le richieste di opposizione saranno accolte, fanno sapere.

Il processo antitrust

Anche perché, in questi stessi giorni, Meta ha altre preoccupazioni che le arrivano questa volta dagli Stati Uniti e da un processo appena iniziato a Washington, per volontà dell’antitrust.

In una delle primissime sedute, è emerso che nel 2018 Mark Zuckerberg prese in considerazione l’ipotesi di separare Instagram dall’azienda madre per timori legati a possibili azioni legali.

Lo si legge in un’email mostrata in aula, nella quale il ceo di Meta scriveva che «scorporare Instagram» poteva essere l’unico modo per raggiungere certi obiettivi strategici, aggiungendo che esisteva una «possibilità non trascurabile» di doverlo fare comunque entro 5-10 anni, anche per WhatsApp.

Lo stesso Zuckerberg è stato interrogato per quasi sette ore (in due giorni). L’accusa sta cercando di provare che l’acquisizione non avesse l’intenzione di migliorare la qualità dei prodotti, ma di eliminare dei potenziali concorrenti, con un atteggiamento monopolistico.

A dimostrarlo ci sarebbero anche altri documenti che mostrano l’evidente preoccupazione per la crescita di Instagram, poco prima dell’acquisizione. Zuckerberg ha replicato che l’intento non era di eliminare un avversario, ma di acquisirne il controllo per migliorare l’esperienza degli utenti, nonostante Facebook stesse nello stesso tempo costruendo una propria app fotografica (che era però ritenuta meno efficace rispetto a quella dei concorrenti).

Il processo è appena iniziato e potrebbe durare un paio di mesi. È probabile che il futuro di Meta possa essere deciso lì, in quelle aule di un tribunale americano, facendo diventare totalmente secondarie le lamentele di quella minoranza di utenti europei che hanno ancora a cuore la loro privacy.

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